SULL’UTILITÀ E IL DANNO DELLA STORIA PER LA VITA by FRIEDRICH NIETZSCHE

Spesso siamo portati a pensare che la storia, così come la filosofia siano qualcosa di astratto, lontano da noi o comunque inapplicabile alla vita di tutti i giorni. Invece, secondo me, possono aiutarci a vivere meglio, quantomeno a vivere con più consapevolezza.

Quando penso alla storia penso sempre all’apertura del corso di storia contemporanea che feci, ormai da parecchi lustri, all’Università Statale di Milano con un fantastico storico il professor Alceo Riosa.

Il prof. Riosa aprì il corso con questa definizione di storia: “Studiare la storia serve a capire il passato, interpetrare il presente per proiettarci nel futuro”. Quindi la storia come maestra di vita.

Per anni ho pensato che il passato fosse un bagaglio, seppur pesante, indispensabile. Oggi non ne sono più convinto. Penso, ad esempio, come il passato possa farmi soffrire, amareggiare al punto tale da perdere la serenità, a volte x sempre.

Ognuno di noi è tenuto in trappola dal proprio passato e questo sia per gli avvenimenti positivi che per quelli negativi: siamo tutti intrappolati nel presente dal nostro passato e questa trappola blocca e preclude un futuro che possa discostarsi in qualche modo dal passato.

Quanti di noi continuano a rimuginare sulle vicende accadute, su quello che poteva essere e non è stato, su quello che è stato e non è più possibile cambiare e ci arrovelliamo per anni o per la vita intera per trovare delle giustificazioni a quanto successo ed il più delle volte non ci sono giustificazioni. Può essere un incidente stradale, una delusione amorosa, i ricordi dei genitori, delle vite che avresti voluto vivere, dei bivi che non hai seguito o del bivio che hai preso a destra e dovevi prendere a sinistra, trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato in ogni caso sono tutti fattori che cambiano irrimediabilmente la nostra esistenza.

Per quanto mi riguarda il passato è sempre stato un fardello pesante da portare non solo per la miriade di ricordi negativi ma anche per i successi avuti, per le imprese quasi eroiche che ti sembra aver compiuto e che oggi non ti senti più in grado di compiere anche per gli anni che passano.

E’ quindi un aspetto che continuo ad indagare tant’è che qualche tempo fa, avevo affrontato il concetto dell’eterno ritorno strettamente legato al concetto temporale.

Analizzando sempre gli scritti di Nietzsche c’è un altro argomento che analizza il tempo trascorso, in questo caso la storia.

In realtà il concetto dell’eterno ritorno è un punto di arrivo per Nietzsche, ci sono delle considerazioni intermedie. Si parte con la nascita della tragedia per poi arrivare in maturità al concetto di eterno ritorno. In mezzo c’è l’argomento che desidero indagare oggi.

Quindi dopo la nascita della tragedia, Nietzsche tra il 73 e 76 scrive un’opera intitolata “le quattro considerazioni inattuali” inizialmente dovevano essere 13 poi ridotte a quattro e sono:

  • David Strauss, il confessore e lo scrittore
  • Sull’utilità e il danno della storia per la vita
  • Schopenhauer come educatore
  • Richard Wagner a Bayreuth.

Quella che mi interessa è la seconda considerazione inattuale quindi: sull’utilità e il danno della storia per la vita dell’uomo sia singolo che dell’umanità.

Nietzsche in quest’opera ci conduce verso una visione critica del passato e ci invita, fatto tesoro dell’esperienza, a darci un taglio netto. Certo non è facile, ovviamente non viene spontaneo,  mi sto allenando e devo dire che, nel momento in cui fai tuo questo modo di pensare e riesci a metterlo in pratica, i vantaggi sono enormi.

In realtà inizialmente in quest’opera N vuole proporre una rinascita della cultura tragica che l’occidente ha rinnegato, quella cultura che dovrebbe guidare la rinascita europea, ma alla fine muove delle critiche serrate alla cultura contemporanea, è un’opera contro lo storicismo e contro lo storiografico, contro le posizioni filosofiche storiciste hegeliane imperanti nell’ottocento.

Il punto di partenza è seguente: secondo N un eccesso di storia soffoca le potenzialità creatrici dell’uomo, l’eccesso di storia diventa mala storia, la storia come malattia, l’uomo dell’Ottocento infatti, secondo N, è un uomo rivolto con lo sguardo non al presente, all’attimo, alla vita che vive, non con lo sguardo al futuro ma è un uomo rivolto soprattutto con lo sguardo al passato e ricerca nella storia il senso del presente, ricerca nella storia gli strumenti per capire il presente.

Ma in realtà questo uomo diventa un uomo epigonale cioè un uomo imitatore. L’umanità intera per N si sta facendo imitatrice del passato anziché essere una umanità che si trasforma verso il futuro è una umanità che si limita a copiare il passato.

Dunque la cultura storicista diventa la cultura di chi idolatra il fatto, gli eventi passati o anche quelli presenti ma intesi come singoli fatti che vanno catalogati e schematizzati. Lo storicismo imbriglia la vitalità, l’uomo storicista si inchina di fronte alla storia, venera la storia come una necessità ineludibile. Lo storicismo trasforma l’uomo in un adulatore del passato, l’uomo finisce per non creare nulla di nuovo.

Per vivere il presente bisogna dimenticare il passato e qui N fa degli espliciti riferimenti a Schopenhauer ed a Leopardi.

Il culto del passato. Il passato, se pesa, però ti impedisce di vivere pienamente il presente.

Quindi c’è una buona memoria che serve alla vita ma c’è la memoria che è contro la vita.

Qual è la buona memoria e qual è la cattiva memoria?

La buona memoria è quella che ti permette di instaurare un rapporto proficuo con il passato, la buona memoria è quella che ti permette di rendere il passato fertile, proficuo, fecondo per il presente.

Per N esistono più tipologie di storia ed esattamente esistono tre tipi di storia, tutti hanno degli elementi positivi ma anche delle negatività.

  • La prima tipologia di storia è la tipologia detta “storia monumentale” è la storia di chi guarda al passato per cercare dei modelli e dei maestri per il presente, la grandezza se è stata una volta possibile, lo sarà ancora; quindi studio la storia per vedere se i modelli a cui aspiro si sono realizzati e quindi potrebbero realizzarsi ancora. La storia monumentale è quella che prende dei modelli, es. la grandezza di Roma, la democrazia di Pericle e guarda se quei modelli che sono accaduti possono accadere ancora. Qual è il difetto di questo modo di fare storia? il difetto è mitizzare o abbellire il passato. Talmente aspiro a quel modello che lo cambio.

 

  • seconda tipologia di storia: la storia antiquaria

Essa guarda al passato con amore. La storia antiquaria è di chi venera e di chi preserva l’amore verso il passato, il legame forte, qual è il rischio di questa storia? il rischio è di diventare dei collezionisti, il collezionista storico cioè colui che la espone su un mobile in un armadietto, il collezionista diventa un feticista della storia. La storia diventa un feticcio che io adoro e venero ma non è più una storia che mi insegna attraverso la buona memoria divento un adoratore della storia, non uno studioso di storia.

  • Terza ed ultima tipologia: la storia critica

la storia critica è di quelli che guardano al passato come un peso da cui liberarsi.

La storia va studiata per liberarsi della storia. Per liberarsi non tanto degli errori perché la storia non è maestra di vita ma bisogna studiare la storia come se fosse un tribunale che interroga scrupolosamente la storia che la indaga per scoprire che la storia alla fine è quasi sempre ingiusta perché la storia presenta quella dimensione tragica e lacerante. Qual è l’aspetto potenzialmente negativo di questa storia? È quello che risiede nella presunzione di poter recidere il passato con un coltello. Cioè ho studiato, ho imparato, non lo farò più, non lo ripeterò più perché ho studiato la storia come fosse un tribunale e mi libero dagli errori del passato.

Sembra facile ma non lo è! Questo terzo modo di interpretare e rapportarsi con il passato è l’unico modo per non farsi incatenare! Bisogna allenare la mente ogni giorno ed ogni giorno fare tesoro delle esperienze e buttare tutto il resto, subito prima che marcisca e ci faccia marcire.

ELO

OPERA: SULL’UTILITÀ E IL DANNO DELLA STORIA PER LA VITA

Considera il gregge che pascola di fronte a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia domani, salta di qua e di là, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dalla mattina alla sera, giorno dopo giorno, poco legato al suo piacere e alla sua svogliatezza, cioè al paletto dell’istante, e perciò né malinconico né annoiato. È doloroso per l’uomo vedere questo, perché egli si pavoneggia della sua umanità di fronte all’animale e, nonostante ciò, osserva con invidia la sua felicità, perché questo solo egli desidera: vivere come l’animale né annoiato né soggetto al dolore, e lo desidera vanamente, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo domandò una volta all’animale: “perché non parli con me della tua felicità e ti limiti a guardarmi?” Anche l’animale voleva rispondere e dire: “è che dimentico costantemente ciò che volevo dire”, ma dato che dimenticò anche questa risposta e tacque, l’uomo se ne meravigliò.
Egli si meraviglia anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di rimanere attaccato al passato: per quanto possa correre lontano o velocemente, la catena corre con lui. È un miracolo: l’attimo in un batter d’occhio è qua, in un batter d’occhio è là, prima nulla, dopo nulla, torna come un fantasma e disturba la tranquillità di un attimo successivo. Di continuo si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade giù, svolazza, vola indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice:
“Mi ricordo” e invidia l’animale che dimentica immediatamente e che vede davvero ogni attimo morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, estinguersi per sempre. L’animale vive così in modo non storico, poiché si muove nel presente, come un numero, senza che ne rimanga una bizzarra frazione, non sa comprendere se stesso, non nasconde nulla e appare in ogni momento totalmente ciò che è, non può essere nient’altro che sincero. L’uomo, al contrario, si oppone al pesante e
sempre più pesante carico del passato: questo lo schiaccia giù o lo spinge da parte, grava sul suo passo come un carico invisibile e oscuro, che l’uomo può far finta di rinnegare una volta e che anche in compagnia dei suoi simili rinnega volentieri, per risvegliare la loro invidia.

Perciò lo tocca, come se si rammentasse di un paradiso perduto, il vedere il gregge al pascolo o, in una situazione di maggiore confidenza, il bambino che non ha ancora rinnegato nulla del passato e che gioca fra gli steccati del passato e del futuro in beata cecità. Ma il suo gioco deve essere disturbato, ben presto deve essere richiamato dalla sua situazione di dimenticanza. Allora impara a comprendere il motto “c’era”, la soluzione con cui lotta, sofferenza e noia vanno incontro all’uomo per ricordargli che cosa è in fondo la sua esistenza – un imperfetto che non si completa mai. Se infine la morte porta la dimenticanza così desiderata, si appropria contemporaneamente del presente e dell’esistenza e pone il sigillo su quella conoscenza, cioè che l’esistenza è un ininterrotto essere stato, una cosa che vive del respingere e del distruggere se stessa, del contraddire se stessa. Se è una caso fortunato, se andare a caccia di un nuovo caso fortunato in un certo senso è ciò che tiene in vita il vivente e lo spinge alla vita, allora nessun filosofo ha più ragione del cinico, perché la felicità dell’animale, così come del cinico totale, è la prova vivente della ragione del cinismo.

La felicità più piccola, se è ininterrottamente presente e rende felici, è senza paragone più felicità diquella più grande, che capita solo come episodio, in un certo qual modo come umore, come ideaperegrina, fra evidente malavoglia, desiderio e privazione. Ma nella più piccola e nella più grandefelicità è sempre unico ciò per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, espresso in modo più colto, la facoltà di avere sensazioni in modo non storico durante la loro durata. Chi non riesce a sedersi sulla soglia dell’attimo, dimenticando tutto il passato, chi non può star fermo in un
punto come una dea della vittoria senza giramenti di testa e paura, costui non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancora peggio: non farà mai niente che renda felici altri. Ricordatevi dell’esempio più lontano, un uomo che non possedesse per nulla la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere ovunque un divenire, questo tale non crede più al suo proprio essere, non crede più a sé, vede scorrere tutto da una parte all’altra in punti mossi e si perde in questa corrente
del divenire, infine non oserà quasi più, come un retto discepolo di Eraclito, levare il dito. Ad ogniatto appartiene il dimenticare, come alla vita di ogni cosa organica appartiene non solo la luce, ma
anche il buio. Un uomo che costantemente volesse avere sensazioni in modo storico, sarebbe simile a colui che fosse obbligato a rinunciare al sonno, o all’animale che dovesse continuare a vivere ruminando e ruminando, sempre e costantemente. Quindi: è possibile vivere quasi senza ricordare, vivere felici, come mostra l’animale, ma è del tutto impossibile vivere senza dimenticare.
O, per spiegarmi in modo ancora più semplice sul mio tema: c’è un grado di insonnia, del ruminare, di senso storico, nel quale il vivente subisce un danno e alla fine muore, che sia un uomo oun popolo o una civiltà.
Per determinare il grado e, attraverso di lui, i confini ai quali il passato deve essere dimenticato,se non vuole diventare il becchino del presente, si dovrebbe sapere con precisione quanto è grande la forza plastica di un uomo, di un popolo, di una civiltà; intendo quella forza di crescere in modo appropriato a partire da sé, di trasformare e incorporare ciò che è passato e estraneo, di sanare le ferite, di sostituire le cose perse, di riprodurre le cose rotte con le loro stesse parti. Ci sono
uomini che possiedono così poco questa forza da sanguinare in modo insanabile ad una singola esperienza, ad un singolo dolore, spesso soprattutto ad una singola, trascurabile, ingiustizia, come ad una piccola, singola, lacerazione sanguinante; ci sono, dall’altra parte, quelli ai quali le piùselvagge e terribili disgrazie della vita e le azioni della propria malvagità nuocciono così poco, da
condurli, in mezzo a ciò e nel giro di poco tempo, a un discreto benessere e ad una forma di coscienza tranquilla.

Tanto più salde sono le radici della natura intima di un uomo, tanto più egli si impossesserà del passato; e se si pensasse la natura più potente e mostruosa, allora sarebbe da riconoscere che non ci sarebbero per lei limiti del senso storico, dove esso potesse agire in modo soffocante e nocivo; tale natura attirerebbe a sé e dentro di sé e contemporaneamente farebbe diventare sangue ogni cosa passata, propria o estranea.

Ciò che una tale natura non doma, è capace di dimenticarlo; non c’è più, l’orizzonte è chiuso del tutto, e nulla può ricordare che al di là ci sono ancora uomini, passioni, insegnamenti, scopi.

E questa è una legge generale: ogni vivente può solo all’interno di un orizzonte diventare sano, forte e fecondo; se è incapace di disegnare attorno a sé un orizzonte e troppo egoista per limitare il proprio sguardo entro uno estraneo, allora lo si vede andare spossato e frettoloso ad un tramonto anticipato. La serenità, la buona coscienza, l’azione positiva, la fiducia nel futuro – tutto dipende, nel singolo come nel popolo, dal fatto che ci sia una linea che separa ciò che si può dominare con lo sguardo, ciò che è chiaro da ciò che non è rischiarabile e scuro, dal fatto che ben si sa dimenticare al momento giusto, tanto quanto si sa ricordare al momento giusto, dal fatto che si senta con istinti potenti quando è necessario avvertire in modo storico e quando in modo non storico. Questa è proprio l’affermazione, alla cui considerazione è invitato il lettore: il non storico e lo storico sono in egual misura necessari per la salute di un singolo, di un popolo e di una civiltà.
Ora ciascuno porta con sé in primo luogo un’osservazione: il sapere e il sentire storico di un uomo possono essere molto limitati, il suo orizzonte ristretto come quello di un abitante di una valle alpina, può mettere ingiustizia nel giudizio, un errore nell’esperienza di essere il primo – e, nonostante ogni ingiustizia e ogni errore, se ne sta lì in invincibile salute e vigore e rallegra ogni sguardo; mentre proprio accanto a lui chi è di gran lunga più giusto e colto è cagionevole e deperito, perché le linee del suo orizzonte si fanno sempre più in là muovendosi senza tregua, perché non
può tirarsi fuori dalla rete molto più delicata della sua giustizia e verità per un grossolano volere e bramare. Al contrario abbiamo visto l’animale, che è totalmente non storico e abita quasi all’interno di un orizzonte formato da un punto e nonostante ciò in una certa felicità, vivere almeno senza noia e finzione; dovremo, quindi, ritenere più importante e originaria la capacità di poter avvertire in modo storico in un determinato grado, in quanto in essa si trova il fondamento sul quale può crescere qualcosa di giusto, di sano, di grande, qualcosa di davvero umano. Il non storico è simile ad un’atmosfera avvolgente, solamente nella quale si fa nascere la vita, per scomparire di nuovo con la distruzione di questa atmosfera. È vero: solo per il fatto che l’uomo limiti quell’elemento non storico pensando, riflettendo, comparando, separando, unificando; solo per il fatto che sorga all’interno di quella nuvola vaporosa che circonda un luminoso e scintillante raggio di luce; solo per la forza di usare il passato per vivere e di fare storia dall’accaduto, l’uomo diventa uomo; ma in un eccesso di storia l’uomo è di nuovo alla fine, e senza quel velo del non storico non avrebbe mai cominciato o non oserebbe mai cominciare. Dove sono le azioni che l’uomo può fare senza essere entrato in quello strato di nebbia del non storico? O, per lasciare da parte le immagini e ricorrere all’illustrazione mediante esempi, si richiami alla mente un uomo gettato e trascinato di qua e di là da una passione impetuosa, per una femmina o per una grande idea: come muta per lui il suo mondo! Guardando indietro si sente cieco; ascoltando di lato sente l’estraneo come un suono confuso e vuoto di significato; ciò che normalmente percepisce, non lo percepì mai così, così sensibilmente vicino, colorato, sonoro, illuminato, come se lo catturasse contemporaneamente con tutti i sensi.

Tutte le valutazioni sono cambiate e svalutate; non è più in grado di fare calcoli, perché riesce e stento a sentire; si domanda se sia stato il buffone di parole straniere, di opinioni estranee;
si meraviglia che la sua memoria giri instancabilmente in cerchio e sia così debole e stanca per fare un unico salto fuori da questo circolo. È la condizione più ingiusta del mondo, stretta, ingrata verso il passato, cieca di fronte al pericolo, sorda agli ammonimenti, un piccolo e vivace gorgo in un mare morto di notte e dimenticanza: ed è questa condizione – non storica, del tutto antistorica – il grembo di quell’azione non solo ingiusta, ma anche giusta e nessun artista raggiungerà la sua immagine, nessun condottiero la sua vittoria, nessun popolo la sua libertà, senza averla prima bramata e perseguita in una tale condizione non storica. Come colui che agisce, secondo l’espressione di Goethe, è sempre senza coscienza, così è senza sapere, dimentica la maggioranza delle cose, per farne una sola, è ingiusto verso ciò che si trova dietro di lui e conosce un solo diritto, il diritto di ciò che ora deve divenire. Così chiunque agisca, ama la sua azione infinitamente di piùdi quanto lei meriti di essere amata; e le azioni migliori accadono in una tale esuberanza d’amore,
da non dover essere in ogni caso indegne di questo amore, se, d’altro canto, il loro valore fosse incalcolabilmente grande.

Se uno fosse in grado di subodorare e di respirare in casi numerosi questa atmosfera non storica, nella quale è nato ogni grande avvenimento storico, così quel tale, come essenza conoscente, potrebbe forse elevarsi ad un punto di vista sovrastorico, come lo ha esposto una volta Niebuhr come risultato possibile di considerazioni storiche.

“Ad una cosa almeno, afferma lui, è utile la storia, compresa in modo chiaro e dettagliato: che si sa come anche gli spiriti più grandi e alti del nostro genere umano non sanno come il loro occhio abbia preso casualmente la forma mediante la quale vedono e mediante la quale con violenza pretendono da tutti che vedano: con violenza infatti, perché l’intensità della loro coscienza è straordinariamente grande. Chi non sa e non ha compreso questo in modo molto determinato e in molti casi, costui è sottomesso dall’apparizione di uno spirito potente, che in una forma determinata porta la più alta passionalità”.

Un tale punto di partenza sarebbe da chiamare sovrastorico, perché uno che stesse su di lui non potrebbe più rintracciare alcuna seduzione nel continuare a vivere e collaborare con la storia, avendo riconosciuto l’unica condizione di ogni evento, quella cecità e ingiustizia nell’anima di chi agisce; egli stesso sarebbe guarito dal prendere la storia eccessivamente sul serio a partire da ora, avrebbe imparato a rispondere da sé alla domanda, riguardo ogni uomo, ogni evento, fra i Greci o i Turchi, riguardo un’ora del primo o del diciannovesimo secolo, come e per quale motivo si vive.Chi chiede ai suoi conoscenti, se desiderino vivere ancora una volta gli ultimi dieci o venti anni, potrebbe accorgersi facilmente chi di loro è predisposto a quel punto di vista sovrastorico: non risponderanno certo tutti No!, ma motiveranno quel No! in modi differenti. Gli uni affermeranno che si consolano, “ma i prossimi venti saranno migliori”; ci sono quelli di cui David Hume afferma in modo sprezzante:

And from the dregs of life hope to receive
What the first sprightly running could not give.

E sperano di ricevere dal fango della vita
ciò che la prima corsa vivace non poteva dare.

Vogliamo chiamarli gli uomini storici; lo sguardo al passato li spinge verso il futuro, infiamma il loro coraggio ad affrontare ancora più a lungo la vita, accende la speranza che il giusto verrà, che
la felicità si trovi dietro la montagna verso la quale avanzano. Questi uomini storici credono che il
senso dell’esistenza verrà alla luce sempre più nel corso di un processo, guardano perciò solo all’indietro, per comprendere il presente in considerazione del processo giunto fino a questo punto
ed imparare a desiderare il futuro in modo più veemente; non sanno affatto di pensare ed agire in
modo non storico nonostante tutta la loro storia, e come anche il loro impegno con la storia non siaa servizio della conoscenza pura, ma della vita.

Ma a quella domanda, di cui abbiamo sentito la prima risposta, si può rispondere anche altrimenti. Nuovamente con un No!, ma con un no motivato diversamente. Con il no dell’uomo sovrastorico, che non vede la salvezza nel processo, per cui, invece, è finito in ogni momento e raggiunge il suo fine. Che cosa potrebbero insegnare dieci nuovi anni, che i passati dieci non poterono!

Se ora il senso dell’insegnamento sia felicità o rassegnazione o virtù o penitenza, su ciò gli uomini sovrastorici non sono mai stati d’accordo gli uni con gli altri; ma, di fronte a tutte le considerazioni storiche del passato, giungono alla completa unanimità sull’affermazione: il passato e il presente è uno e identico, cioè tipicamente uguale in ogni molteplicità e come onnipresente di tipi immortali, una forma immobile di valori immutati e di significato eternamente uguale. Come le centinaia di lingue diverse corrispondono alle stesse esigenze tipicamente fisse degli uomini, cosicché uno, che comprendesse tali esigenze, non sarebbe in grado di apprendere nulla di nuovo da tutte le lingue, così il pensatore sovrastorico illumina per sé dall’interno all’esterno ciascuna storia dei
popoli e dei singoli, indovinando come un chiaroveggente il senso originario dei diversi geroglifici
e, pur spossato, persino evitando gradualmente i segni della scrittura che fluiscono senza sosta:
come dovrebbe portare, nell’infinito superfluità dell’accadimento, non alla sazietà, alla saturazione,
ma al disgusto! Cosicché il più ardito alla fine è pronto a dire al suo cuore con Giacomo Leopardi:
“Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e il fango è il mondo.
T’acqueta omai”

Lasciamo agli uomini sovrastorici il loro disgusto e la loro saggezza: oggi vogliamo piuttosto, per una volta, rallegrarci di cuore della nostra mancanza di saggezza e procurarci una buona giornata come coloro che agiscono per il progresso, come adoratori del processo.

Che la nostra valutazione dello storico sia un pregiudizio occidentale, se almeno progrediamo e non stiamo fermi entro questi pregiudizi! Se solo questo impariamo sempre meglio, spingiamo la storia ad essere lo scopo della vita! Poi vogliamo ammettere volentieri di fronte agli uomini sovrastorici che loro possiedono più saggezza di noi, nel caso che possiamo solo essere sicuri di possedere più vita di loro, dato che, in ogni caso, la nostra mancanza di saggezza avrà più futuro della loro saggezza.

E affinché non rimanga nessun dubbio sul senso di questa opposizione di vita e saggezza, mi verrò in aiuto mediante un metodo sottoposto a molte prove a partire dall’antichità e presenterò immediatamente alcune tesi.
Un fenomeno storico, riconosciuto puro e completo e risolto in un fenomeno della conoscenza, è, per colui che lo ha riconosciuto, morto, poiché egli ha riconosciuto in lui l’illusione, l’ingiustizia, la passione cieca e soprattutto tutto l’orizzonte oscurato dalla dimensione terrestre di quel fenomeno e contemporaneamente la sua potenza storica. Questa potenza è diventata impotente per lui che sa, forse non ancora per lui che vive.
La storia pensata come scienza pura e divenuta sovrana sarebbe una sorta di epilogo e di resa dei conti della vita per l’umanità. La formazione storica è piuttosto solo al seguito di una potente nuova corrente di vita, di una civiltà in divenire per esempio, qualcosa di salutare e promettente riguardo al futuro, quindi solo allora, se è dominata e condotta da una forza superiore e non domina e conduce lei stessa.

La storia, fino a quando è a servizio della vita, è a servizio di una potenza storica e perciò non potrà e dovrà mai diventare, in questo ordine subordinato, scienza pura come lo è la matematica.
Ma la questione fino a quale grado la vita avrà bisogno dei servizi della storia è una delle questioni e preoccupazioni somme per quanto riguarda la salute di un uomo, di un popolo, di una civiltà, dato che con un certo eccesso della stessa si sbriciola e degenera la vita e alla fine, attraverso questa degenerazione, la storia stessa.

II

Il fatto che la vita abbia bisogno del servizio della storia deve essere compreso in modo così evidente come l’affermazione, che successivamente dovrà essere dimostrata, che l’eccesso di storia danneggi il vivente. Sotto tre aspetti la storia appartiene al vivente: appartiene a lui come colui che agisce e che ha aspirazioni, a lui come colui che conserva e adora, a lui come a colui che soffre e che ha bisogno di essere liberato. A questa triade di relazioni corrisponde una triade di modi della storia, per quanto è permesso distinguere un modo monumentale, uno antiquario e uno critico della storia.

La storia appartiene, prima di tutto, a colui che agisce e ha potere, a colui che combatte un grande combattimento, che ha bisogno di esempi, maestri, consolatori e non riesce a trovarli fra i suoi
compagni e nel presente. Così apparteneva a Schiller, poiché il nostro tempo è così cattivo, diceva Goethe, che la natura utilizzabile non incontra più il poeta nella vita umana che la circonda.

Polibio, ad esempio, rispetto a coloro che agiscono, definisce la storia politica come la giusta preparazione al governo di uno Stato e la maestra più eccellente, come colei che attraverso il ricordo delle sciagure di altri ci ammonisce a sopportare con fermezza i cambiamenti della fortuna. Chi ha imparato a riconoscere in ciò il senso della storia, si deve infastidire nel vedere viaggiatori curiosi o micrologi scrupolosi arrampicarsi pigramente sulle piramidi di grandi avvenimenti passati: là dove egli trova gli stimoli all’imitazione e al miglioramento, non desidera incontrare il fannullone, che, bramoso di distrazione e sensazione, se ne va in giro come fra gli accatastati tesori pittorici di una galleria.

Che colui che agisce non si perda d’animo

e provi disgusto fra i gracili fannulloni senza speranza, fra i compagni che apparentemente agiscono, ma che in realtà sono irrequieti e si dimenano, guarda indietro a sé e interrompe la corsa verso il suo traguardo per prendere fiato.

Il suo traguardo è in qualche modo una felicità, forse non la sua propria, spesso quella di un popolo o quella dell’umanità tutta intera; egli fugge di fronte alla rassegnazione e usa la storia come mezzo contro la rassegnazione. Per lo più non lo attende nessuna ricompensa, se non la fama, cioè la candidatura a un posto d’onore nel tempio della storia, dove egli stesso potrà essere per i posteri maestro, consolatore e ammonitore. Infatti, così recita il suo comandamento: ciò che una volta consentì di ampliare e adempiere in modo più bello il concetto di uomo, questo deve esserci anche per l’eternità, per poter fare questo per l’eternità. Il fatto che i grandi momenti nella battaglia degli individui costruiscano una catena, che in loro si congiunga attraverso i millenni una catena montuosa dell’umanità, che per me la sommità di un tale momento passato da lungo tempo sia ancora viva, luminosa e grande, questa è l’idea fondamentale nella fede nell’umanità, che si esprime nell’esigenza di una storia monumentale. Ma proprio su questa esigenza, che il grande sia eterno, si accende la battaglia più terribile, poiché ogni altra cosa, che ancora vive, grida no. Il monumentale non deve nascere – questa è la soluzione contraria. L’ottusa abitudine, cioè il piccolo e il basso, occupando ogni angolo del mondo, mandando fumo come pesante aria terrestre attorno ad ogni cosa grande, si getta, intralciando, ingannando, smorzando, asfissiando, sulla strada che deve percorrere la grandezza verso l’immortalità. Ma questa strada passa attraverso cervelli umani! Attraverso i cervelli di animali spaventati e dalla vita breve, che si immergono sempre di fronte alle stesse necessità e che con fatica tengono lontano da sé la distruzione, poiché vogliono in primo luogo una cosa sola: vivere a qualsiasi prezzo.

Chi potrebbe supporre in loro quella corsa con la fiaccola della storia monumentale, solo attraverso cui ciò che è grande continua a vivere! E si risvegliano pur sempre alcuni che, alla vista della grandezza passata e rafforzati nella sua considerazione, si sentono così beatificati, come se la vita umana fosse una cosa magnifica, e come se il frutto più bello di questa pianta amara fosse sapere che un tempo uno è passato con orgoglio e con forza attraverso questa esistenza, un secondo con sensibilità profonda, un terzo con caritatevole misericordia – ma lasciando tutti dietro di sé una dottrina, secondo la quale vive nel modo più bello chi non fa caso all’esistenza. Se l’uomo comune prende questo lasso di tempo in modo così malinconicamente serio e bramoso, quelli seppero portarsi, sulla strada per l’immortalità e per la storia monumentale, ad un riso olimpico o almeno alla beffa; spesso scesero con ironia nella loro tomba, poiché che cosa era in loro da seppellire! Solo ciò che li aveva sempre tormentati in quanto scoria, spazzatura, vanità, bestialità e ciò che ora è vittima del passato, dopo essere stato lungamente lasciato in balia del loro disprezzo. Ma una cosa sola vivrà, il monogramma della loro essenza più propria, un’opera, un’azione, un raro lampo di genio, una creazione; vivrà, perché nessun mondo a venire potrà privarsene. In questa forma trasfigurata al massimo la fama è qualcosa
di più dello squisito boccone del nostro amor proprio, come lo ha chiamato Schopenhauer10, è la
fede nell’affinità e continuità dei grandi di ogni tempo, è una protesta contro il cambiamento delle
generazioni e la caducità.

Quale giovamento dà all’uomo attuale la considerazione monumentale del passato, l’occuparsi di ciò che è classico e raro dei tempi passati? Egli viene a sapere che ciò che è grande e che una volta esisteva è stato in ogni modo una volta possibile e perciò sarà possibile ancora una volta; percorre con più coraggio il suo cammino, dato che ora è soppiantato il dubbio che lo coglie nelle ore di maggiore debolezza, se egli non voglia forse l’impossibile.

Si faccia la supposizione che qualcuno creda che non siano necessari più di cento esseri umani produttivi, educati in un nuovo spirito e attivi per farla finita con quel culturame venuto di moda proprio ora in Germania. Come dovrebbe rafforzarlo accorgersi che la cultura del Rinascimento è emersa appoggiandosi sulle spalle di una tale schiera di cento uomini.
Eppure – per imparare subito qualcosa di nuovo dallo stesso esempio – come sarebbe fluttuante e incerta, come sarebbe impropria quella comparazione! A quanto di diverso dovrebbe passare sopra se deve produrre quella potente efficacia, come deve essere fatta entrare a forza l’individualità del passato in una forma generale e come devono essere attenuati tutti gli angoli acuti e spezzate le linee rette per il bene dell’accordo! In fondo ciò che una volta è stato possibile potrebbe presentarsi come possibile una seconda volta, se i pitagorici avessero ragione nel credere che si dovesse ripetere, rispetto all’identica costellazione dei corpi celesti, lo stesso anche sulla terra fino nel singolo dettaglio; così che sempre, se le stelle hanno la stessa posizione l’una rispetto all’altra, uno Stoico si unirà ad un Epicureo e uccideranno Cesare e sempre in un’altra situazione Colombo scoprirà l’America. Solo se la terra ricominciasse da capo ogni volta il suo pezzo di teatro dopo il quinto atto, se vi fosse certezza che lo stesso snodo di motivi, lo stesso deus ex machina, la stessa catastrofe facessero ritorno in spazi determinati, il potente potrebbe aspirare alla storia monumentale in piena e ironica sincerità, cioè ad ogni fatto nella sua peculiarità e singolarità propriamente formata: probabilmente non prima che gli astronomi siano ridiventati astrologi. Fino ad allora la storia monumentale non potrà aver bisogno di quella piena sincerità; avvicinerà, generalizzerà, infine paragonerà sempre il disuguale, attenuerà sempre la differenza dei motivi e delle cause, per far passare l’effetto a spese della causa in modo monumentale, ovvero esemplare e degno di imitazione, cosicché, dato che lei [la storia monumentale] prescinde il più possibile dalle cause, la si potrebbe chiamare, in modo non troppo esagerato, una raccolta di “effetti in sé”, come di avvenimenti che avranno effetto in ogni tempo. Ciò che viene festeggiato in feste popolari, in giorni di commemorazioni religiose o belliche, è propriamente un tale “effetto in sé”: è ciò che non fa dormire gli ambiziosi, che si trova nel cuore degli imprenditori come un amuleto, ma non come connexus storico di cause ed effetti, che, conosciuto completamente, dimostrerebbe solo che non potrebbe mai venire fuori di nuovo la stessa cosa nel gioco dei dadi del futuro e del caso. Fintantoché l’anima della storiografia si trova nei grandi stimoli che un potente deriva da lei, fintantoché il passato deve essere descritto come degno di imitazione, come imitabile e possibile una seconda volta, essa è comunque in pericolo di essere modificata, abbellita e accostata in questo modo alla libera invenzione; ci sono tempi che non riescono affatto a distinguere tra un passato monumentale e una finzione mitica, perché dal primo mondo possono essere derivati gli stessi stimoli che dal secondo. Se, quindi, la considerazione monumentale del passato ha la prevalenza sulle altre forme di considerazione, cioè su quella antiquaria e su quella critica, allora il passato stesso ne riporta danni; intere grandi parti dello stesso vengono dimenticate, disprezzate, e scivolano via come un flusso grigio e ininterrotto, e solo singoli fatti truccati emergono come isole; alle poche persone che in generale diventano visibili capita di notare qualcosa di innaturale e degno di meraviglia, come l’anca dorata che i discepoli di Pitagora volevano riconoscere nel loro maestro.

La storia monumentale imbroglia con le analogie: incita il  coraggioso all’audacia con somiglianze seducenti, l’entusiasta al fanatismo, e se si pensa questa storia nelle mani e nelle teste
degli egoisti ben dotati e di malvagi fanatici, verranno distrutti regni, uccisi principi, istigate guerre e rivoluzioni e aumentato di nuovo il numero degli “effetti in sé” storici, cioè degli effetti senza cause sufficienti. Tutto ciò per ricordare i danni che la storia monumentale può provocare in coloro che hanno il potere e in coloro che agiscono, che siano buoni o cattivi: ma che cosa provocherà, se solo se ne impossesseranno e se ne serviranno coloro che sono privi di potere e coloro che non
agiscono!

Prendiamo l’esempio più semplice e più comune. Si pensi alle nature senza senso artistico o con
debole senso artistico corazzate e armate dalla storia dell’arte monumentale: contro chi dirigeranno ora le loro armi! Contro i loro nemici secolari, i forti spiriti artistici, quindi contro coloro che davvero possono imparare solo da quella storia, cioè per la vita, e volgere ciò che hanno appreso in una prassi elevata. A quelli viene sbarrata la strada, a quelli viene oscurata l’aria danzando in modo idolatrico e con il giusto impegno attorno ad un monumento del grande passato compreso a metà, come se si volesse dire: “Vedete, questa è l’arte vera e reale, che cosa vi riguarda di coloro che divengono e che vogliono!”. Apparentemente questo fanatismo danzante possiede persino il privilegio del buon gusto, dato che colui che creava si trovò sempre in svantaggio rispetto a quello che si limitava ad osservare e non metteva mano all’opera; come in tutti i tempi il politicante da tavolino è più furbo, retto e riflessivo dell’uomo di stato che governa. Ma se si vuole spostare sul piano dell’arte l’uso del voto popolare e della maggioranza numerica e contemporaneamente rendere necessario all’artista difendersi di fronte ai pigroni esteti, così si può fare un giuramento anticipato che egli verrà condannato, non nonostante, ma piuttosto proprio perché i suoi giudici hanno proclamato festosamente il canone dell’arte monumentale (cioè secondo il chiarimento dato), dell’arte che ha fatto effetto in tutti i tempi; mentre secondo loro non si può ancora usare la qualifica di monumentale per ogni arte, perché l’arte del presente difetta in primo luogo di necessità, in secondo di pura tendenza, in terzo proprio di quella autorità della storia. Di contro l’istinto rivela loro che l’arte potrebbe essere colpita a morte dall’arte: il monumentale non sorgerà più in nessun modo e per questo serve proprio ciò che viene dal passato in quanto autorità del monumentale. Così sono coloro che conoscono l’arte, perché vorrebbero metterla del tutto da parte, si comportano come medici, mentre in fondo hanno tentato di avvelenarla; così formano la loro lingua e il loro gusto, per spiegare, a partire dalla loro cattiva abitudine, perché rifiutino così ostinatamente ogni prelibatezza sostanziosa che viene offerta loro. Dato che non vogliono che sorga la grandezza, il loro mezzo è dire: “Vedete, la grandezza è già qui!”.

In verità questa grandezza che è già qui li riguarda così poco come quella che sorgerà: di ciò rende testimonianza la loro vita. La storia monumentale è il vestito in maschera nel quale si fa passare il loro odio per i potenti e i grandi del loro tempo per appagata ammirazione dei potenti e dei grandi dei tempi passati e, mascherati in
quel modo, volgono nel suo opposto il senso proprio di ogni forma di considerazione storica; che lo sappiano chiaramente o meno, si comportano comunque come se il loro motto fosse: lasciate che i morti seppelliscano i vivi.
Ciascuna delle tre forme di storia che ci sono è proprio nel suo diritto solo su un unico terreno e sotto un unico clima: su di un altro cresce come erbaccia che fa disastri. Se l’uomo che vuole creare qualcosa di grande ha bisogno davvero del passato, così se ne impadronisce mediante la storia monumentale; chi, al contrario, preferisce continuare nell’abitudine e in ciò che è onorato dai tempi antichi, si cura del passato come uno storico antiquario; e solo colui al quale una preoccupazione del presente opprime il petto e che vuole ad ogni costo scrollarsi di dosso il peso ha la necessità della storia critica, cioè giudicante e condannante. Da un malaccorto trapianto di piante non proviene niente di buono: il critico senza necessità, l’antiquario senza misericordia, il conoscitore della grandezza senza il potere della grandezza sono spuntati come erbacce, piante estraniate al loro terreno naturale e perciò degenerate.

III

La storia appartiene in secondo luogo a colui che conserva e che onora, a colui che con fiducia e amore guarda indietro al luogo da dove viene, a che cosa è diventato; attraverso questa pietà egli estingue il debito di gratitudine per la sua esistenza. Curando con mano cauta ciò che persiste dall’antichità, vuole conservare le condizioni sotto cui egli è venuto alla luce per coloro che verranno alla luce dopo di lui – e così serve la vita. Il possesso del patrimonio primordiale muta in una tale anima il suo concetto, dato che, al contrario, l’anima viene posseduta da quello. Il piccolo, il limitato, il fatiscente e l’antiquato contengono la loro propria dignità e inviolabilità per il fatto che l’anima dell’uomo antiquario che conserva e che onora si trasferisce in queste cose e si prepara là un nido familiare. La storia della sua città diventa per lui la storia di se stesso; egli comprende i muri, la porta turrita, l’ordinanza del municipio, la festa popolare come un variopinto diario della sua gioventù e ritrova se stesso in questo tutto, la sua forza, il suo zelo, la sua passione, il suo giudizio, la sua follia e la sua cattiveria. Qui era possibile vivere, dice a sé, perché è possibile vivere, qui sarà possibile vivere, perché siamo ostinati e non possiamo essere abbattuti dal giorno alla notte. Così egli guarda, con questo “Noi”, al di là della fragile bizzarra vita individuale e percepisce se stesso come lo spirito della casa, della discendenza e della città. A volte lui stesso saluta, al di là di secoli lontani che oscurano e che confondono, l’anima del suo popolo come la sua propria anima; un sentirsi in mezzo e un prevedere da fuori, un seguire come un segugio tracce quasi cancellate, un leggere in modo istintivamente giusto il passato ancora così pieno di scritte, un comprendere fulmineo i palinsesti, e persino i polisesti12 – questi sono i suoi doni e le sue virtù. Con loro Goethe stette di fronte al monumento di Erwin von Steinbach13, nella tempesta del suo sentimento si lacerò la cortina nebulosa distesa fra loro, egli rivide per la prima volta l’opera tedesca che “agisce a partire dall’anima tedesca forte e rude”. Un tale senso e impeto condusse gli Italiani al Rinascimento e risvegliò nei loro poeti l’antico genio italico del Nuovo verso un “miracoloso risuonare dell’antichissimo suono degli strumenti a corda”, come dice Jacob Burckhardt.

Ma ciascun senso di venerazione storico-antiquario ha il sommo valore dove, al di là delle circostanze modeste, rudi, persino misere in cui vive un essere umano o un popolo, diffonde un semplice e riposante senso di piacere e di soddisfazione; come, ad esempio, ammette con sincerità di cuore Niebuhr di vivere contento e di non sentire la mancanza dell’arte nella palude o nella landa, fra contadini liberi con una storia. Come potrebbe la storia servire meglio la vita, se non legando le stirpi e le popolazioni meno avvantaggiate alla loro patria e ai costumi della loro patria, rendendole stanziali e tenendole lontane dall’errare intorno in cerca di una situazione migliore in terra straniera e dal combattere e gareggiare per la stessa? Talvolta sembra cocciutaggine e sconsideratezza ciò che contemporaneamente avvita saldamente il singolo a questi tipi e a queste circostanze, a quest’abitudine tormentata, a questi versanti spogli – ma questa è la sconsideratezza più salutare e favorevole a tutti, come sa chiunque si sia fatto un’idea ben chiara degli effetti terribili del piacere avventuroso di emigrare, forse presso intere schiere di popoli, o veda da vicino la situazione di un popolo che ha perso la fiducia nella propria preistoria e viene lasciato in balia di una scelta cosmopolita ininterrotta e di una ricerca del nuovo e del sempre nuovo. Il sentimento opposto, la sensazione di benessere dell’albero nelle sue radici, la gioia di sapere di non essere del tutto arbitrario e casuale, ma di uscire da un passato come erede, fiore e frutto, e per questo motivo essere scusato, sì giustificato nella sua esistenza – questo è ciò che oggi preferibilmente si definisce come il senso storico vero e proprio.
Questa non è sicuramente la situazione, nella quale la maggioranza degli uomini sarebbe in grado di sciogliere il passato nel puro sapere, cosicché anche noi qui percepiamo ciò che abbiamo percepito con la storia monumentale, che il passato stesso soffre, fintantoché la storia serve la vita e viene dominata da spinte vitali. Detto con libertà di immagine: l’albero sente le sue radici più di quanto non possa vederle, ma questa sensazione misura la loro grandezza secondo la grandezza e la forza delle sue ramificazioni visibili. Se l’albero sbaglia già in questo, come sarà in errore riguardo a tutta la foresta intorno a sé! Di lei sa e sente solo quel tanto che lo ostacola o gli è d’aiuto – ma niente oltre a ciò. Il senso antiquario di un uomo, di una comunità civica, di un intero
popolo ha sempre un campo visivo altamente limitato; infatti per lo più non percepisce affatto, e il
poco che vede lo vede troppo da vicino e isolato, non riesce a misurarlo e perciò prende tutto come ugualmente importante e quindi ogni cosa singola come troppo importante. Perciò non c’è per le cose del passato nessuna differenza di valore e proporzione, che veramente renda giustizia alle cose, ma solo misurazioni e proporzioni delle cose rivolte al singolo o al popolo, che guardano indietro in maniera antiquaria.
Qui c’è sempre un pericolo nelle vicinanze: alla fine viene semplicemente preso per ugualmente degno di nota tutto ciò che è vecchio e passato, ciò che compare ancora all’orizzonte, ma ciò che non viene incontro alle cose vecchie con timore reverenziale, quindi ciò che è nuovo e che è in fieri, viene rifiutato e osteggiato. Così i Greci stessi sopportarono lo stile ieratico delle loro arti figurative accanto a quello libero e sontuoso, inoltre più tardi non solo non sopportarono i nasi a punta e il sorriso glaciale, ma anzi ne fecero una questione di buon gusto. Se il senno di un popolo si indurisce in questo modo, se la storia serve così la vita, da finire per seppellire il continuare a vivere e la vita superiore, se il senso storico non conserva più la vita, ma la mummifica, così muore
l’albero, in modo innaturale, gradualmente dall’alto giù fino alle radici – e infine la radice stessa perisce.

La stessa storia antiquaria degenera nel momento in cui la vita fresca del presente non la vivacizza e non la entusiasma più.

Ora la pietà si asciuga, la consuetudine colta sopravvive senza di lei e si muove in tondo in modo egoistico-soddisfatto di sé attorno al proprio punto centrale. Allora si getta una sguardo sul disgustoso spettacolo di una cieca smania di collezionare, di ammucchiare ininterrottamente tutto ciò che una volta è esistito. L’essere umano si avvolge nella muffa; gli riesce persino, attraverso la maniera antiquaria, di abbassare il tono di un’inclinazione più significativa, di un’esigenza più nobile a più insaziabile curiosità del nuovo, a più corretta curiositàdel vecchio e di tutto; spesso sprofonda così profondamente da essere alla fine soddisfatto di ognicibo e di divorare, con l’aria, anche la polvere delle minuzie bibliografiche.
Ma se anche non sopraggiunge quella degenerazione, se anche la storia antiquaria non perde il fondamento sul quale può radicarsi per salvare la vita, rimangono sempre abbastanza pericoli, nel caso che essa acquisti troppa forza e soffochi gli altri modi di prendere in considerazione il passato. Lei è in grado solo di conservare la vita, non di produrla; per questo motivo sottovaluta sempre il divenire, perché non possiede per lo stesso alcun istinto di divinazione – come lo ha, ad esempio, la storia monumentale. Così (la storia antiquaria) impedisce l’energica decisione per il nuovo, così paralizza colui che agisce, che sempre, in quanto in azione, offenderà e deve offendere qualche forma di pietà. Il fatto che qualcosa sia invecchiato porta alla luce la pretesa che debba essere immortale ciò che una tale antichità – un antico costume dei padri, una fede religiosa, un privilegio politico ereditato – ha sperimentato durante la durata della sua esistenza quale somma di pietà e di ammirazione da parte del singolo e delle generazioni; così appare presuntuoso e addirittura infame sostituire una tale antichità attraverso una novità e contrapporre ad una tale mucchio di pietà e ammirazione le unità di ciò che è in divenire e presente. Qui diviene evidente come spesso sia necessario per l’uomo, accanto ad un modo monumentale e antiquario di considerare il passato,

un terzo modo, quello critico: e anche questo a serviziodella vita. Deve avere la forza, e applicarla di tempo in tempo, di mandare in frantumi e dissolvere il passato per poter vivere: e raggiunge questo scopo portandolo (il passato) davanti ad un tribunale, sottoponendolo ad un’inchiesta meticolosa, ed infine condannandolo; ma ogni passato è degno di essere condannato – perché così accade con le cose umane: sempre la violenza e la debolezza umana sono state in loro presenti. Non è la giustizia che qui siede a giudizio, è ancora meno la misericordia che qui annuncia il giudizio, ma solo la vita, quella forza oscura, trainante, mai sazia di se stessa. Il suo verdetto è sempre impietoso, sempre ingiusto, perché non è mai sgorgato da una pura fonte di conoscenza. “Poiché tutto ciò che viene alla vita è degno di morire, allora sarebbe meglio che nulla venisse alla vita”. Occorre molta forza per poter vivere e dimenticare, in quanto vivere ed essere ingiusti sono una cosa sola.

Lutero stesso una volta ha affermato che il mondo è nato per una distrazione di Dio; se Dio, infatti, avesse pensato alle armi pesanti, non avrebbe creato il mondo.

A volte la vita stessa, che ha bisogno della dimenticanza, pretende l’annientamento temporaneo di questa dimenticanza; allora deve diventare chiaro, per esempio, quanto sia ingiusta l’esistenza di una certa cosa, di un privilegio, di una casta, di una dinastia, quanto questa meriti il declino. Allora il suo passato verrà considerato in modo critico, allora si interverrà con il coltello sulle sue radici, allora si calpesteranno spietatamente tutte le forme di pietà.
È sempre un processo pericoloso, per la vita stessa pericoloso; e uomini e tempi che servono la vita in modo da orientare e distruggere un passato sono sempre uomini e tempi pericolosi o in pericolo. Dato che noi ora siamo i risultati di generazioni antecedenti, siamo anche i risultati dei loro smarrimenti, passioni e errori, di più: dei loro crimini; e non è possibile sciogliersi da questa catena. Se condanniamo quegli smarrimenti e pensiamo di esserne dispensati, non viene rimosso il fatto che noi proveniamo da essi. Giungiamo, nel migliore dei casi, ad un contrasto fra la natura ereditaria e originaria e la nostra conoscenza, addirittura alla battaglia fra una nuova e dura disciplina contro ciò che è da tempo assorbito e congenito, noi impiantiamo una nuova abitudine, un nuovo istinto, una seconda natura, tanto che la prima natura inaridisce. È un tentativo di darci ugualmente un passato a posteriori, dal quale si vorrebbe provenire, in opposizione a quello dal quale si proviene – un tentativo sempre pericoloso, perché è difficile trovare un limite nella negazione del passato e perché le seconde nature sono in genere più graciline delle prime.

Troppo di frequenteci si limita alla conoscenza del bene senza farlo, perché si conosce anche il meglio senza avere la possibilità di farlo. Ma qui e là riesce la vittoria e c’è persino per i combattenti, per quelli che si servono della storia critica per vivere, una consolazione degna di nota: di sapere, cioè, anche quella prima natura in qualche momento è stata una seconda e che quella seconda natura vincente diventerà la prima.

IV

Questi sono i servizi che la storia può fare alla vita: ogni uomo e ogni popolo necessita, secondo i suoi obiettivi, forze e bisogni, di una certa conoscenza del passato, talvolta come storia monumentale, talvolta come antiquaria, talvolta come critica, ma non come schiera di puri pensatori che si limitino a guardare la vita, non come individui bramosi di sapere, che trovino soddisfazione solo nel sapere, per i quali l’aumento della conoscenza è lo scopo stesso, ma sempre come necessità che ha come traguardo ultimo la vita e che si pone sotto la signoria e massima guida di questo traguardo.

Il fatto che questa sia la relazione naturale nei confronti della storia di un tempo, di una civiltà, di un popolo – provocata dalla fame, regolata dal grado di esigenze, mantenuta nei limiti dalla forza plastica interna -, il fatto che la conoscenza del passato in ogni epoca sia bramata in funzione del futuro e del presente, non per l’indebolimento del presente, non per lo sradicamento di un futuro forte e vitale, tutto ciò è semplice, come la verità è semplice, e convince immediatamente anche colui che non si faccia portare per prima cosa la prova storica.

E ora un’occhiata veloce al nostro tempo! Ci spaventiamo, scappiamo indietro: dove se n’è andata ogni chiarezza, ogni naturalità e purezza di quella relazione di vita e storia, in che modo confuso, eccessivo, inquieto scorre davanti ai nostri occhi! La colpa è di noi osservatori? O la costellazione di vita e storia è realmente mutata nel momento in cui una stella ostile si è prepotentemente messa fra di loro? Che siano altri a mostrare che noi abbiamo visto in modo sbagliato: noi vogliamo dire ciò che supponiamo di vedere. Certo una tale stella, una stella brillante e luminosa, si è intanto messa di mezzo, la costellazione è davvero mutata: mediante la scienza, mediante la pretesa che la storia sia scienza. Ora non più da sola la vita governa e sottomette il sapere del passato, ma i pali di confine sono gettati a terra e ciò che una volta è stato si abbatte sull’uomo. Fintantoché all’indietro c’è stato un divenire, fin là, all’indietro, all’infinito sono posticipate anche tutte le prospettive. Nessuna generazione ha visto ancora un tale sconfinato spettacolo, come quello che mostra ora la scienza del divenire universale, la storia, ma sicuramente lo mostra con la pericolosa temerarietà del suo motto: fiat veritas, pereat vita ( che sia fatta la verità, che la vita perisca).

Facciamoci ora un’immagine del fenomeno spirituale che in tal modo viene causato nell’anima dell’uomo moderno. Il sapere storico fluisce da sorgenti improsciugabili, sempre di nuovo, dentro e fuori, l’estraneo senza connessioni si fa largo, la memoria apre tutte le sue porte e, nonostante ciò, non è abbastanza aperta, la natura si sforza al massimo di accogliere questi ospiti estranei, di metterli in ordine e di far loro onore, ma questi stessi lottano fra di loro e sembra necessario dominarli e superarli, per non finire a terra durante la loro lotta. L’abitudine ad una tale disordinata, tempestosa e battagliera amministrazione della casa diventa gradualmente una seconda natura, nonostante rimanga ugualmente fuori questione che questa seconda natura è molto più debole, inquieta e del tutto più malsana della prima.

L’uomo moderno si trascina dietro una mostruosa quantità di pietre del sapere impossibili da digerire, che poi, al momento opportuno, fanno un bel baccano dentro di noi, come capita nella favola.

Attraverso questo baccano si tradisce la qualità più propria di quest’uomo moderno: l’opposizione degna di nota di un interno, al quale non corrisponde nessun esterno, e di un esterno al quale non corrisponde nessun interno, una contrapposizione che i popoli antichi non conoscono.

Il sapere che viene accettato in eccesso, senza fame e in opposizione alle esigenze, ora non agisce più come motivo di trasformazione e di spinta verso l’esterno e rimane nascosto in un certo mondo interno caotico, che quell’uomo moderno descrive con raro orgoglio come la sua propria “interiorità”.

Poi si dice a buon diritto che si ha il contenuto e che manca solo la forma, ma in ogni essere vivente questa è un’opposizione inopportuna. Per questo motivo la nostra cultura moderna non è niente di vivente, poiché non la si può comprendere affatto senza quella opposizione, cioè: non è affatto una reale cultura, ma piuttosto solo una forma di sapere riguardo alla cultura, si arresta all’idea di cultura, al sentimento di cultura, ma non diviene una decisione di cultura. Al contrario ciò che è realmente motivo e ciò che emerge visibilmente come fatto dall’esterno allora non significa niente più che una convenzione indifferente, una pietosa imitazione o una smorfia grossolana. Nell’interiorità allora riposa quella sensazione simile a quel serpente che ha inghiottito un coniglio intero, poi si sdraia con calma al sole ed evita tutti i movimenti eccetto quelli necessari. Il processo interiore: questo è adesso la cosa stessa, questa è la cultura propriamente detta. Colui che vi passa davanti ha solo un unico desiderio, che una tale cultura non muoia per l’impossibilità di digerire. Si pensi, per esempio, un Greco che passa davanti ad una tale cultura, egli avrebbe la sensazione che per gli uomini moderni “colto” e “storicamente colto” sembrino appartenersi così reciprocamente come se fossero una cosa sola e fossero diversi solo nel numero delle parole. Se egli poi si esprimesse così: uno può essere molto colto e ugualmente privo di qualsiasi cultura storica, così si crederebbe di non aver sentito bene e si scuoterebbe la testa. Quel noto popolo non numeroso, intendo proprio i Greci, aveva conservato con ostinazione un senso antistorico nel periodo del suo massimo potere; se un uomo attuale dovesse per magia tornare indietro a quel mondo, probabilmente troverebbe i Greci molto “rozzi”, e in questo modo verrebbe certamente scoperto ed esposto alle pubbliche risa il segreto, conservato con tanto imbarazzo, della cultura moderna, perché da noi non otteniamo nulla, noi moderni.

Solo riempiendoci fino all’eccesso di tempi, costumi, arti, filosofi, religioni, conoscenze estranee, diventiamo qualcosa degno di nota, cioè enciclopedie ambulanti, come forse ci chiamerebbe un antico Greco sbattuto nella nostra epoca. Ma nelle enciclopedie ogni valore si trova in ciò che sta dentro, nel contenuto, non in ciò che sta sopra o ciò che costituisce rilegatura e copertina; e così la cultura moderna è essenzialmente interna, sopra il rilegatore ha stampato a memoria qualcosa come: Manuale di cultura interna per barbari esterni.

Certamente quell’opposizione fra interno ed esterno rende l’esterno ancora più barbaro di quanto dovesse essere, se un popolo rozzo crescesse solo a partire da sé secondo le proprie dure esigenze. Perciò quale mezzo rimane ancora alla natura per dominare ciò che è abbondantemente invadente? Accettarlo con la maggior leggerezza possibile è il solo mezzo per metterlo il più velocemente possibile da parte ed emarginarlo. Da lì deriva un’abitudine a non prendere più le cose reali seriamente, da lì deriva la personalità debole in seguito alla quale il reale, l’esistente fa solo una scarsa impressione; infine si diventa all’esterno sempre più accomodanti e comodi e si allarga il preoccupante baratro fra contenuto e forma fino all’insensibilità per la barbarie, se solo il ricordo viene stimolato sempre di nuovo, se solo si mettono di nuovo in moto cose degne di essere conosciute che possano essere sistemate con precisione nei cassetti di quel ricordo. La cultura di un popolo come opposizione a quella barbarie è stata una volta, come intendo io, descritta a buon diritto come unità dello stile artistico in ogni manifestazione vitale di un popolo; questa descrizione non può essere costantemente fraintesa, come se si trattasse dell’opposizione di barbarie e bello stile; il popolo al quale una cultura corrisponde deve solamente in ogni realtà essere qualcosa di vivamente unico e non cadere a pezzi così miseramente, frantumato in interno ed esterno, in forma e contenuto. Chi aspira a sostenere la cultura di un popolo, quegli aspiri a sostenere questa superiore unità e collabori alla distruzione del culturame moderno in favore di una vera cultura, osi riflettere sul modo in cui la salute di un popolo disturbata dalla storia possa essere ristabilita, sul modo in cui possa ritrovare i suoi istinti e con ciò anche la sua sincerità.
Io voglio ora parlare di noi Tedeschi del presente, di noi che, più di qualsiasi altro popolo, dobbiamo soffrire di quella debolezza della personalità e di quella contraddizione di contenuto e forma. La forma vale per noi Tedeschi comunemente come una convenzione, come travestimento e come alterazione, e perciò viene, se non odiata, comunque non amata; si direbbe ancora più giustamente che abbiamo una straordinaria paura della parola convenzione e anche della cosa convenzione. In questa paura il Tedesco abbandonò la scuola dei Francesi, dato che voleva diventare più naturale e in questo modo più tedesco. Ora sembra in questo “in questo modo” aver fatto male i conti: scappato dalla scuola della convenzione, si lasciò andare come e dove aveva voglia e copiò in modo malfermo e a casaccio, in fondo con una mezza dimenticanza, ciò che prima copiava in modo meticoloso e spesso con gioia. Così si vive, in contrapposizione a tempi precedenti, anche oggi ancora in una convenzione francese fiaccamente scorretta, come mostra tutto il nostro modo di camminare, stare in piedi, chiacchierare, vestire e abitare. Credendo di tornare indietro verso una dimensione naturale, si scelsero il lasciarsi andare, la comodità e la misura possibilmente più piccola di autosuperamento. Si vada in giro per una città tedesca, ogni convenzione, messa a confronto con la caratteristica nazionale di città straniere, si mostra al negativo, tutto è privo di colore, consumato, male imitato, trascurato, ognuno si comporta a propria discrezione, ma non secondo una discrezione potente e ricca di riflessione, ma secondo le leggi che prescrivono una volta la fretta generalizzata e poi la ricerca generalizzata di comodità. Un capo d’abbigliamento, la cui invenzione non richiede di spaccarsi la testa e la cui produzione non costa tempo, quindi un capo d’abbigliamento preso a prestito dall’estero e imitato nel modo più trascurato possibile, vale presso i Tedeschi subito come contributo al costume tedesco. Il senso della forma viene da loro con ironia apertamente rigettato – perché si ha davvero il senso del contenuto; [i Tedeschi] sono certo il famoso popolo dell’interiorità.
Ora, però, c’è anche un famoso pericolo in questa interiorità: il contenuto stesso, del quale si suppone che non possa essere visto dall’esterno, potrebbe anche ad un certo punto dileguarsi, ma dall’esterno non si noterebbe né questo fatto né la presenza precedente. Anche se si pensasse il popolo tedesco il più lontano possibile da questo pericolo, lo straniero avrà pure sempre ragione di rimproverarci che la nostra interiorità è troppo debole e disordinata, per essere efficace verso l’esterno e per darsi una forma. L’interiorità si può dimostrare in modo fuori dal comune teneramente sensibile, seria, potente, affettuosa, buona e forse più ricca di quella di altri popoli, ma nel complesso rimane debole, perché tutte le fibre belle non sono strette in un nodo resistente, cosicché l’azione visibile non è quella globale e autorivelativa di questo interno, ma solo un tentativo deboluccio o rozzo di voler far passare in qualche modo una fibra per il tutto. Per questo motivo non si può giudicare il Tedesco secondo un comportamento e, come individuo, è sempre nascosto anche dopo quest’azione. Notoriamente, lo si deve misurare secondo i suoi pensieri e i suoi sentimenti, e quelli ora li esprime nei libri. Se quei libri non risvegliassero dubbi (ora come non mai) sul fatto che la nota interiorità risieda ancora e davvero nel suo tempietto inaccessibile: sarebbe un pensiero terribile se essa un bel giorno fosse scomparsa e rimanesse ora solo l’esteriorità, quella esteriorità arrogantemente goffa e umilmente fiacca, come segno caratteristico dei Tedeschi. Quasi altrettanto terribile sarebbe se quell’interiorità risiedesse ancora là dentro senza che si riesca a vederla, falsificata, colorata, ridipinta, e fosse diventata attrice, se non ancora peggio, come, ad esempio, sembra supporre Grillparzer, silenzioso osservatore tenutosi in diparte, a partire dalla sua esperienza drammatico-teatrale. “Noi sentiamo con astrattezza”, dice lui, “non sappiamo quasi più come si manifesti il sentire nei nostri contemporanei; noi gli facciamo far salti come al giorno d’oggi lui non ne fa più. Shakespeare18 ha rovinato tutti noi moderni”.
Questo è un caso singolo forse interpretato troppo velocemente come generale, ma come sarebbe terribile la sua generalizzazione adeguata, se i casi singoli dovessero farsi accettare per forza troppo di frequente all’osservatore, come suonerebbe disperata la frase: noi Tedeschi sentiamo con astrattezza, noi siamo tutti rovinati dalla storia, una frase che distruggerebbe alla radice ogni speranza di una cultura nazionale ancora da venire, perché quel tipo di speranza cresce dalla fede nella genuinità ed immediatezza del sentire tedesco, dalla fede nell’interiorità intatta; che cosa deve essere ancora sperato, ancora creduto, se la sorgente del credere e dello sperare è torbida, se l’interiorità ha imparato a fare salti, a ballare, a truccarsi, ad esprimersi con astrazione e calcolo e a perdere gradualmente se stessa? E come può ancora sopportare il grande spirito produttivo di trovarsi in mezzo ad un popolo che non è più sicuro della sua interiorità indivisa e che cade in pezzi fra persone di cultura con un’interiorità decrepita e corrotta e persone prive di cultura con un’interiorità inaccessibile? Come può ancora sopportare che l’unità del sentire popolare sia andata perduta e, inoltre, di sapere che proprio in quella parte (che si definisce la parte colta del popolo e pretende per sé un diritto agli spiriti artistici nazionali) viene falsificato e colorato il sentire?
Se anche qui e là il giudizio e il gusto dei singoli è divenuto più fine e più elevato, questo non lo ripaga, lo tormenta come se dovesse parlare solo ad una setta e non fosse più necessario all’interno del suo popolo. Forse preferisce sotterrare il suo tesoro ora, dato che prova disgusto per essere preso sotto l’ala protettiva di una setta in modo esigente, mentre il suo cuore è pieno di compassione per tutti. L’istinto del popolo non gli viene più incontro, è inutile spalancare le braccia con nostalgia e ardore verso di lui. Che cosa gli rimane ora, se non volgere il suo odio appassionato contro quella magia che gli è d’intralcio, contro quelle barriere innalzate nella cosiddetta cultura del suo popolo, per condannare almeno come giudice ciò che per lui, che vive e che dà vita, è annientamento e degradazione? Così baratta la convinzione profonda del suo destino con la brama divina di colui che crea e che aiuta e finisce come iniziato solitario, come saggio troppo sazio. È lo spettacolo più doloroso: chi lo osserva, riconoscerà qui una forma di costrizione santa, si dirà che qui bisogna venire in aiuto, che quella unità superiore nella natura e nell’anima di un popolo deve essere ripristinata, che quello strappo fra l’interno e l’esterno deve scomparire di nuovo sotto i colpi di martello della necessità. A quali mezzi si dovrebbe rivolgere? Che cosa gli rimane di nuovo se non la sua profonda conoscenza? Esprimendola, ampliandola, spargendola a piene mani, spera di piantare un’esigenza e dalla forte esigenza deriverà una volta una forte azione. E affinché io non lasci alcun dubbio riguardo a dove prendo l’esempio di quella necessità, di quell’esigenza, di quella conoscenza, così dovrei fornire esplicitamente la mia testimonianza sul fatto che è l’unità tedesca nel senso massimo ciò a cui aspiriamo e a cui aspiriamo più fervidamente della riunificazione, l’unità dello spirito e della vita tedeschi dopo l’annientamento dell’opposizione di forma e contenuto, di interiorità e convenzione.

V

Sotto cinque aspetti la sazietà di un periodo di tempo nella storia mi sembra essere ostile e pericolosa: attraverso un tale eccesso viene creato quel contrasto, trattato fino ad ora, di interno ed esterno ed in tal modo si indebolisce la personalità; attraverso questo eccesso un periodo di tempo cade nella boria di possedere al grado superiore rispetto ad ogni altro popolo la virtù più rara, la giustizia; attraverso questo eccesso vengono disturbati gli istinti del popolo e il singolo non meno della totalità viene ostacolato nel maturare; attraverso questo eccesso viene impiantata quella fede (al momento) nociva nell’età avanzata dell’umanità, la fede di essere ritardatari ed epigoni; attraverso questo eccesso un periodo di tempo cade nella disposizione di spirito dell’ironia verso se stesso e da lì in quella ancora più pericolosa del cinismo: ma in quest’ultima matura sempre più verso una prassi furba ed egoistica, attraverso la quale le forze vitali vengono paralizzate e infine distrutte.
Ed ora di nuovo alla nostra prima affermazione: l’uomo moderno soffre di una personalità indebolita. Come il romano durante l’età imperiale divenne non-romano rispetto alle terre circostanti a lui sottomesse, come perse se stesso mentre faceva irruzione ciò che era straniero e degenerò nel carnevale cosmopolita di divinità, costumi e arti, così deve succedere all’uomo moderno, che si fa preparare continuamente dai suoi artisti della storia la festa di un’esposizione universale; è diventato uno spettatore che se la gode e che se ne va di qua e di là, e si è venuto a trovare in una situazione nella quale le stesse grandi guerre e grandi rivoluzioni riescono a stento per un attimo a
cambiare qualcosa. La guerra non è ancora finita e già è trasformata in carta stampata in centinaia
di migliaia di copie, già viene prospettata come l’ultimissimo mezzo per eccitare palati affaticati desiderosi di storia. Sembra quasi impossibile che un suono forte e pieno venga prodotto mediante la vibrazione al massimo grado delle corde musicali: subito si smorza, nel momento successivo già si spegne, teneramente storicamente volatilizzato e privo di forze. Espresso in modo morale: non vi riesce più di tenere fermo ciò che è elevato, le vostre azioni sono colpi improvvisi, non tuoni che rombano. Se realizzate le opere più grandi e meravigliose, nonostante ciò se ne andranno dall’orco senza canti e senza suoni, dato che l’arte si dà alla fuga, se voi coprite immediatamente le vostre azioni con il tetto della storia. Chi vuole capire, calcolare, comprendere nel momento in cui dovrebbe tener fermo in lunga commozione l’irragionevole come la cosa sublime, può essere definito ragionevole, pur solo nel senso in cui Schiller parla di ragione del ragionevole: egli non vede delle cose che il bambino vede, egli non sente delle cose che il bambino sente; proprio queste cose sono le più importanti, perché se non capisce queste, la sua capacità di comprendere è più infantile di quella del bambino e più candida del candore, nonostante le molte furbe pieghette dei
suoi lineamenti incartapecoriti e l’esercizio virtuoso delle sue dita a srotolare ciò che è aggrovigliato. Cioè: ha annientato e perduto il suo istinto, ora non può più, ponendo la fiducia nella “bestia divina”, lasciare andare le redini, se l’intelletto barcolla e la sua strada passa per deserti. In questo modo l’individuo diventa titubante e insicuro e non riesce più a credere in sé, sprofonda in se stesso, nell’interiorità, cioè qui nel deserto accumulato di ciò che ha appreso, privo di efficacia verso l’esterno, dell’ammaestramento che non diventerà mai vita. Se si guarda una volta verso l’esterno, così si nota come la spinta degli istinti verso l’esterno da parte della storia ha rivoltato gli
uomini trasformandoli quasi in mere astrazioni e ombre; nessuno mette più in gioco la propria persona, ma si maschera da uomo colto, da poeta, da politico. Se si afferrano quelle maschere, perché si crede che si tratti di cose serie e non solo di una farsa (dato che tutti quanti vanno in giro ad attaccare manifesti di serietà) si hanno improvvisamente per le mani solo stracci e toppe colorate. Perciò non ci si dovrebbe più far confondere, perciò si dovrebbe intimare loro: “Toglietevi le vostre giacche o siate ciò che sembrate”. Ogni persona seria fin nelle fibre più profonde non dovrebbe più diventare un Don Chisciotte, dato che ha di meglio da fare che invischiarsi nella lotta con tali presunte realtà. Ad ogni modo dovrebbe guardare in modo penetrante, gridare dietro ad ogni maschera Alt! Chi va la? e tirarle giù la maschera sul collo. Singolare! Si sarebbe portati a pensare che la storia incoraggi gli uomini soprattutto ad essere sinceri, anche se fosse un matto sincero; e questo è sempre stato il suo effetto, solo ora non lo è più! La cultura storica e l’abito borghese universale sono al potere nello stesso tempo. Mentre non si è ancora parlato con voce dispiegata della “personalità libera”, non si vede uno straccio di personalità, tanto meno libera, ma piuttosto uomini universali tenuti nascosti con paura. L’individuo si è ritirato nell’interno, dall’esterno non si nota nulla di ciò, rispetto a questo si può dubitare che ci possano essere cause senza effetti. O sarebbe necessario mettere a guardia del grande harem storico-universale una stirpe di eunuchi? A loro dona perfettamente la pura oggettività. Sembra quasi che il compito sia quello di sorvegliare la storia per far sì che niente ne venga fuori, sì storie, ma nessun avvenimento, di evitare che attraverso la storia le personalità diventino “libere”, si dovrebbe dire: sincere verso di sé, sincere verso gli altri, e cioè in parole e opere. Solo mediante questa sincerità verrà alla luce lo stato di necessità, la miseria interna dell’uomo moderno, e, al posto di quelle convenzioni e mascherate che nascondono tremebonde, potranno allora subentrare, come vere aiutanti, arte e religione, per impiantare insieme una cultura, che corrisponda alle vere esigenze e che non solo insegni (come l’attuale cultura generale) a mentirsi riguardo a queste esigenze e, in questo modo, a diventare menzogne vaganti.
In quali innaturali, artificiali, ed in ogni caso indegne condizioni deve cadere, in un tempo che soffre di una cultura generale, la più vera di tutte le scienze, la sincera e nuda dea Filosofia! Lei rimane, in un tale mondo dell’uniformità esteriore obbligata, un dotto monologo di colui che passeggia solitario, un casuale bottino di caccia dell’individuo, un segreto da tavolino tenuto nascosto o una chiacchierata innocente fra decrepiti accademici e bambini. Nessuno può osare di adempiere in sé la legge della filosofia, nessuno vive filosoficamente, con quella facile fedeltà maschile
che obbligava un antico, dovunque fosse e qualsiasi cosa facesse, a comportarsi come uno stoico, nel caso che avesse una sola volta giurato fedeltà alla Stoà. Ogni filosofare moderno è politico e poliziesco, limitato da governi, Chiese, accademie, costumi e vigliaccherie degli uomini, all’apparenza dotto: ci si rassegna a sospirare “se invece” o della conoscenza si dice “c’era una volta”.
La filosofia è all’interno della cultura storica senza diritto, nel caso che voglia essere più di un sapere senza effetto tenuto dentro internamente; ma se solo l’uomo moderno fosse coraggioso e deciso, se solo non fosse nelle sue inimicizie un essere interiore, la metterebbe al bando; così si accontenta, pieno di vergogna, di vestirne la nudità. Sì, si pensa, scrive, stampa, parla, insegna filosoficamente – per quanto sia all’incirca tutto permesso, solo nell’operare, nella vita è diverso, dato che è permessa sempre una sola cosa e ogni altra è semplicemente impossibile, così vuole la
cultura storica. Questi sono ancora uomini, ci si domanda allora, o forse solo macchine per pensare, scrivere e parlare?
Goethe ha detto una volta di Shakespeare: “Nessuno ha disprezzato il costume materiale più di lui; conosce davvero bene il costume interiore degli uomini, e qui sono tutti uguali. Si dice che lui abbia rappresentato i Romani in modo perfetto: io non trovo, sono soltanto Inglesi dalla testa ai piedi, ma sicuramente sono uomini, del tutto uomini, e a loro sta bene anche la toga romana”. Ora mi domando se sia possibile presentare i nostri attuali letterati, uomini del popolo, funzionari, politici come Romani; non sarebbe assolutamente possibile, perché loro non sono uomini, ma solamente compendi dalla testa ai piedi e contemporaneamente astratti concreti. Se anche avessero carattere e modi propri, tutto questo è nascosto in modo così profondo da non poter venir fuori alla luce del giorno; se fossero uomini, lo sono solo per quello “che scruta i reni”. Per chiunque altro sono qualcosa di diverso, non uomini, non dei, non animali, ma creazioni della cultura storica, del tutto e per tutto cultura, immagine, forma senza un contenuto dimostrabile, purtroppo solo una cattiva forma, e per giunta un’uniforme. E la mia frase venga compresa e meditata a fondo: la storia viene sopportata solo da personalità forti, mentre quelle deboli le spegne del tutto. Ciò dipende dal
fatto che lei manda in confusione il sentimento e la sensazione, dove questi non sono sufficientemente forti da misurare su di sé il passato. Colui che non osa più fidarsi di sé, ma che involontariamente chiede consiglio alla storia riguardo al sentire “come dovrei qui avere sensazioni?”, quegli, gradualmente, diventa attore per paura ed interpreta un ruolo, per la maggior parte delle volte addirittura molti ruoli e perciò male e in modo scialbo. Gradualmente manca ogni congruenza fra l’uomo e il suo ambito storico; ci capita di vedere ragazzetti saccenti andarsene in giro con i Romani come se fossero loro simili e rovistano e scavano nei frammenti di poeti greci, come se anche questi corpora21 fossero a loro disposizione per il sezionamento e fossero vilia22 come lo possono essere i loro corpora letterari. Ammettiamo che uno si occupi di Democrito, così mi sale sempre alle labbra la domanda: perché non Eraclito? O Filone? O Bacon? O Descartes? E così via, a scelta. E poi, perché proprio un filosofo? Perché non un poeta, un oratore? E perché poi un Greco? Perché non un Inglese, un Turco? Il passato non è grande abbastanza per trovarvi qualcosa rispetto al quale voi stessi non facciate la figura di fare scelte ridicolmente a piacere? Ma, come detto, è una stirpe di eunuchi, per l’eunuco una femmina è come un’altra, proprio una femmina, la femmina in sé, l’eternamente inavvicinabile – e così è indifferente di che cosa vi occupiate, se solo la storia stessa rimane ben conservata in modo oggettivo, cioè da quegli stessi che mai potranno fare storia. E dato che l’eterno femminino non vi attirerà mai in alto, così voi lo tirerete giù in basso da voi e, in quanto neutri, tratterete anche la storia come un neutro. Ma affinché non si creda che paragoni sul serio la storia con l’eterno femminino, voglio invece esprimere chiaramente che io la ritengo, al contrario, l’eterno maschile, solo che, per quelli che sono sempre più “storicamente formati”, deve essere alquanto indifferente, se lei sia l’uno o l’altro, se loro stessi non sono né maschio né femmina, neppure communia, ma piuttosto sempre cose neutre o, detto in modo colto, proprio solo oggettivi eterni. Se le personalità si sono spente solo nel modo raccontato prima, trasformandosi in assenza di soggettività, o, come si dice, in oggettività, così nulla può più avere effetto su di loro; può accadere qualcosa di buono o di giusto, come azione, come poesia, come musica, subito l’elevato uomo di cultura guarda oltre l’opera e chiede della storia dell’autore. Se costui ha già fatto più cose, immediatamente si deve lasciar interpretare secondo il percorso dello sviluppo fatto finora e quello presumibilmente successivo, subito viene accostato ad altri per metterlo a confronto, viene sezionato e fatto a pezzettini in base alla scelta della materia e del metodo, viene rimesso insieme in modo saggio e, complessivamente, ammonito e rimproverato.
Potrebbe accadere la cosa più stupefacente, ma la schiera degli storicamente neutrali è sempre sul posto pronta a sovrastare l’autore considerandolo da lontano. Immediatamente rimbomba l’eco, ma sempre come “critica”, mentre poco prima il critico non si sognava nemmeno della possibilità di ciò che stava accadendo. In nessun caso si arriva ad un effetto, ma sempre solo ad una “critica”, e la critica stessa non produce nessun effetto, ma sperimenta di nuovo solo critica. Per di più si è giunti all’accordo di considerare molte critiche come successo, poche come fallimento. Ma
fondamentalmente tutto rimane, pure nel caso di tali “successi”, come nel caso di quelli vecchi: si fanno chiacchiere per un po’ su qualcosa di nuovo, ma poi di nuovo su qualcosa di nuovo, e intanto ci si comporta come si è sempre fatto. La cultura storica dei nostri critici non permette più che si arrivi ad un effetto nel senso proprio, cioè ad un effetto sulla vita e sulle opere; sullo scritto più nero premono subito la loro carta assorbente, sul disegno più elegante stendono le loro abbondanti pennellate, che dovrebbero essere considerate come correzioni, ed è di nuovo tutto finito. Ma la loro penna critica non smette mai di volare, dato che hanno perso il potere su di lei e vengono più da lei indirizzati di quanto non riescano a indirizzarla. Proprio in questa mancanza di misura dei loro profluvi di parole, nella mancanza di dominio su se stessi, in quella che i Romani chiamano impotentia, si tradisce la debolezza della personalità moderna.

VI

Ma lasciamo da parte questa debolezza. Volgiamoci piuttosto ad una molto rinomata forza dell’uomo moderno con la domanda, a dire il vero, imbarazzante, se egli abbia il diritto di definirsi, (a causa della sua nota “oggettività” storica) forte, cioè giusto, e giusto in un grado superiore rispetto all’uomo di altre epoche. È vero che quella oggettività ha la sua origine in un’accresciuta esigenza e domanda di giustizia? O lei, in quanto effetto di cause molto diverse, ridesta solo l’apparenza, come se la giustizia fosse la vera causa di questo effetto? Forse lei conduce ad un pregiudizio nocivo, perché troppo adulatorio, riguardo alle virtù dell’uomo moderno? – Socrate riteneva un male che si avvicinava alla pazzia presumersi in possesso di una virtù e non possederla, e certamente una tale presunzione è più pericolosa dell’illusione opposta, di soffrire per un errore, per un difetto, dato che attraverso questa illusione è ancora possibile migliorare, ma quella presunzione rende l’uomo o l’epoca quotidianamente peggiori, quindi – in questo caso, più ingiusti.
In verità nessuno merita la nostra ammirazione in grado maggiore di colui che possiede la tendenza e la forza verso la giustizia, perché in lui si uniscono e si nascondono le più elevate e rare virtù come in un mare imperscrutabile, che riceve fiumi da ogni direzione e li inghiotte in sé. La mano del giusto che è autorizzato a giudicare non trema più quando tiene la bilancia: inflessibile verso se stesso, mette peso su peso, il suo occhio non si offusca quando i piatti della bilancia salgono e scendono, e la sua voce non suona né severa né spezzata quando annuncia il giudizio. Se
fosse un freddo demone della conoscenza, diffonderebbe attorno a sé l’atmosfera glaciale di una maestà terribile in modo sovrannaturale, che noi dovremmo temere, non onorare; ma il fatto che egli sia un uomo e cerchi di sollevarsi dal dubbio veniale alla certezza rigorosa, dalla benevolenza tollerante all’imperativo “tu devi”, dalla virtù rara della generosità a quella ancora più rara della giustizia, il fatto che sin dall’inizio sia simile a quel demone senza essere nient’altro che un povero uomo, e, soprattutto, il fatto che egli abbia in ogni momento da far penitenza in se stesso per la sua umanità e si strugga tragicamente in una virtù impossibile – tutto questo lo pone ad un’altezza solitaria come l’esemplare più onorabile della specie umana, dato che lui vuole la verità, non solo come fredda conoscenza senza conseguenze, ma piuttosto come giudice che mette ordine e punisce, verità non come possesso egoistico del singolo, ma piuttosto come diritto sacrosanto a spostare tutte le pietre di confine del possesso egoistico, verità, in una sola parola, come giudizio universale e per nulla come preda acchiappata e brama del singolo cacciatore. Solo in quanto l’uomo veritiero ha il volere incondizionato di essere giusto, esiste qualcosa di grande nella tensione alla verità, glorificata dappertutto in modo così sventato, mentre davanti all’occhio ottuso confluisce tutta una quantità dei più disparati impulsi come coraggio, timore della noia, invidia, disgusto, passione per il gioco (impulsi che non hanno nulla a che fare con la verità) insieme a quell’ardore per la verità che affonda le sue radici nella giustizia. Ma così il mondo sembra pieno di coloro che “sono a servizio della verità” e, tuttavia, la virtù della giustizia è così raramente presente, ancora più raramente riconosciuta e quasi sempre odiata a morte, all’opposto la schiera delle virtù apparenti ha attirato in ogni epoca onori e magnificenze. Pochi, in verità, sono al servizio della verità, perché solo pochi hanno il puro volere di essere giusti e di questi stessi pochissimi la forza di poter essere giusti. Non è affatto sufficiente il voler averla e le sofferenze più terribili sono venute proprio dall’impulso alla giustizia senza la capacità di giudicare gli uomini; perciò il benessere generale non richiederebbe niente più che diffondere il più ampiamente possibile il seme della capacità di giudizio, affinché il fanatico rimanga separato dal giudice, la brama cieca di essere giudice dalla forza consapevole di poter giudicare. Ma dove si troverebbe il mezzo di piantare la capacità di giudizio! – perciò gli uomini, se si parla loro di verità e giustizia, persevereranno eternamente in
timorosa esitazione se parli loro il fanatico o il giudice. Per questo si dovrebbe perdonare loro di aver sempre salutato con particolare simpatia quei “servitori della verità” che non possiedono né il volere né la forza di giudicare e si impongono il compito di cercare la “pura conoscenza senza conseguenze”, o, più chiaramente, la verità dalla quale non esce nulla. Ci sono molte verità indifferenti; ci sono problemi per giudicare i quali in modo corretto non serve forza di volontà, per non dire spirito di sacrificio. In questi campi indifferenti ed innocui riesce per bene ad un uomo di diventare un freddo demone della conoscenza. Se le stesse coorti di eruditi e ricercatori, in tempi particolarmente favorevoli, si sono trasformate in tali demoni, rimane pur sempre purtroppo possibile che una tale epoca soffra della mancanza di giustizia rigorosa e grande, detto brevemente, del nocciolo più nobile del cosiddetto impulso di verità.
Ora ci si metta davanti agli occhi il virtuoso storico del presente: è lui l’uomo più giusto della sua epoca? È vero, egli ha sviluppato in sé una tale tenerezza e eccitabilità del sentire che nulla di umano gli rimane affatto estraneo; le epoche e le persone più diverse risuonano immediatamente sulla sua lira con tonalità familiari, egli è diventato un passivo risonante, che, attraverso il surisuonare, fa effetto di nuovo su altri simili passivi, fino a quando, infine, tutta l’aria di un’epoca è riempita da tali risonanze tenere e familiari che si incrociano l’una con l’altra. Ma mi sembra che si percepisca, per così dire, solo il tono dell’ottava superiore di quel tono principale originale storico:
la durezza e la potenza dell’originale non è più rintracciabile dal suono sferico-sottile e acuto delle corde. Rispetto a questo il tono originale risvegliava per lo più azioni, bisogni, paure, questo ci culla e ci rende goditori rammolliti; è come se la sinfonia Eroica28 fosse riarrangiata per due flauti e destinata all’uso di sognanti fumatori d’oppio. Da questo si può già ora comprendere come sia la situazione per questi virtuosi riguardo alla somma pretesa dell’uomo moderno ad una superiore e più pura giustizia: questa virtù non ha niente di piacevole, non conosce bollori eccitanti, è dura e terribile. Commisurata a lei, come si trova in basso la generosità nella scala graduata delle virtù, la generosità che è la qualità di alcuni e rari storici! Ma molti di più giungono solo fino alla tolleranza, al far valere ciò che non è più possibile negare, a sistemare e ad abbellire in modo misurato e benevolo, nella furba supposizione che l’inesperto interpreti come virtù della giustizia, se il passato viene raccontato senza alcun alcun accento duro e senza esprimere odio. Ma solo la forza superiore può emettere giudizio, la debolezza deve tollerare se non vuole simulare forza e mutare in attrice la giustizia sulla sedia del giudice. Ora rimane ancora una specie spaventosa di storici, caratteri bravi, rigorosi e sinceri – ma menti ristrette; qui esiste la buona volontà di essere giusti così come è presente il pathos dell’essenza del giudice, ma tutte le sentenze del giudice sono errate, quasi per lo stesso motivo per il quale sono errate le sentenze di giudizio dei collegi giudicanti di giurati ordinari. Come è improbabile, quindi, la frequenza del talento storico! Per non dire poi degli egoisti e partigiani mascherati, che mutano un atteggiamento davvero obiettivo in un gioco malvagio che loro giocano. Similmente a prescindere dalle persone molto scervellate, che, in
quanto storici, scrivono nella fede ingenua che proprio la loro epoca abbia ragione in tutti i punti di vista popolari e che scrivere in misura commisurata a questo tempo significhi essere del tutto giusti; una fede nella quale vive ogni religione e sulla quale, da parte delle religioni, non c’è nient’altro da dire. Quegli storici ingenui chiamano “oggettività” la misura di opinioni e azioni passate nelle universaleggianti opinioni del momento: qui trovano il canone di ogni verità, il loro compito è adattare il passato alla trivialità attuale. All’opposto chiamano “soggettiva” ogni storiografia che non accolga in quanto canoniche quelle opinioni popolari.
E non ci scapperebbe, anche nella più alta interpretazione della parola oggettività, un’illusione?
Allora con questa parola si comprende uno stato dello storico, nel quale lui osservi un avvenimento in tutti i suoi motivi e conseguenze in modo così puro da non provocare alcun effetto sul suo soggetto; si intende quel fenomeno estetico, quell’essere slegato dall’interesse personale, con cui il pittore, in un paesaggio tempestoso, fra tuoni e lampi o sul mare mosso, osserva la sua immagine interiore; si intende quell’essere completamente sprofondati nelle cose. Ma è una forma di superstizione il fatto che l’immagine che le cose mostrano in un uomo disposto in questo modo renda l’essenza empirica delle cose. O in quel preciso momento le cose si dovrebbero disegnare, ritrarre, fotografare su un puro passivo mediante una cosiddetta attività propria?
Questa sarebbe una mitologia ed una cattiva, per giunta: inoltre si dimenticherebbe che quel momento è proprio il momento più forte e indipendente nell’attività creativa interiore dell’artista, un momento di composizione della massima specie, il cui risultato sarà un dipinto artisticamente vero, non uno storicamente vero. Pensare in questo modo la storia in modo oggettivo è il compito silenzioso del drammaturgo, cioè pensare ogni cosa in modo congiunto con ogni altra, inserire una parte isolata nel tessuto del tutto, sempre con il presupposto che debba essere posta nelle cose una unità del piano, quando lei non ci sia già dentro. Così l’uomo riveste il passato e lo sottomette, così manifesta il suo impulso artistico – ma non il suo impulso per la verità e la giustizia. Oggettività e giustizia non hanno niente a che fare l’una con l’altra. Occorrerebbe pensare una storiografia che non abbia in sé alcuna goccia della comune verità empirica e, tuttavia, potesse in sommo grado far valere il diritto sul predicato dell’oggettività. Sì, Grillparzer osa spiegare: “Che cos’è la storia se non il modo in cui lo spirito dell’uomo accoglie gli eventi per lui impenetrabili? In cui stabilisce legami fra ciò che (Dio solo sa se) è affine? In cui sostituisce l’incomprensibile con qualcosa di comprensibile? In cui attribuisce i suoi concetti di adeguatezza verso l’esterno ad un tutto che ne conosce solo una verso l’interno? In cui suppone nuovamente la casualità, dove agivano migliaia di piccole cause? Ogni uomo ha contemporaneamente la sua esigenza di separatezza tanto che milioni di direzioni corrono parallelamente l’una accanto all’altra in linee curve e rette, si incrociano, avanzano, rallentano, si spingono in avanti o indietro, supponendo l’una per l’altra il carattere della casualità e rendendo così impossibile (a parte gli effetti degli eventi naturali) dimostrare una necessità dell’accadimento che sia radicale e che abbracci ogni cosa”. Ma ora proprio quella necessità, in quanto evento di quello sguardo “oggettivo” sulle cose, dovrebbe essere condotta alla luce! Questa è un presupposto che, se viene espresso come affermazione di fede da parte di uno storico, può ammettere solo una forma bizzarra. Di certo Schiller si rende completamente conto della forma in realtà soggettiva di questa supposizione quando dice dello storico: “Un fenomeno dopo l’altro comincia a sottrarsi al fato cieco, alla libertà senza leggi, e ad inserirsi come elemento adatto ad un tutto conforme – che è certamente presente solo nella sua rappresentazione”. Ma che cosa si dovrebbe ritenere dell’affermazione di un famoso virtuoso della storia, introdotta in modo così fideistico, oscillante artificiosamente tra tautologia e controsenso: “Non è nient’altro che questo, che ogni agire e impulso umano è sottomesso al corso delle cose, leggero e spesso sottratto alla considerazione, ma potente e inarrestabile”? In una tale frase non si rintraccia un’incomprensibile verità più di una comprensibile non-verità, come nel detto del giardiniere di corte goethiano: “La natura la si può forzare, ma non costringere”; o nell’iscrizione di un baraccone da fiera, del quale parla Swift: “Qui si può vedere il più grande elefante del mondo, ad eccezione
di se stesso”. Ma allora qual è l’opposizione fra il fare e l’impulso degli uomini e il corso delle cose? Mi viene in mente soprattutto che tali storici, come quello dal quale abbiamo tratto una frase, non istruiscono più non appena diventano generici e allora mostrano nell’oscurità il senso della loro debolezza. In altre scienze le generalizzazioni sono la cosa più importante, in quanto contengono le leggi; ma se le affermazioni come quella riportata volessero valere come leggi, allora ci sarebbe da replicare che il lavoro dello storiografo va sprecato, perché che cosa rimane di vero in quelle affermazioni, dopo aver sottratto quel resto oscuro e insolubile – di cui parlavamo? Questo è noto e persino banale, perché capiterà davanti agli occhi a ciascuno nel più piccolo ambito d’esperienza. Ma scomodare per questo motivo interi popoli e dedicare faticosi anni di lavoro a ciò non significherebbe nient’altro che ammassare esperimento su esperimento nelle scienze naturali, dopo che la legge poteva essere dedotta da lungo tempo dalla ricca quantità di esperimenti disponibile: secondo Zöllner di un tale insensato eccesso dello sperimentare soffrirebbe, del resto, la scienza naturale contemporanea. Se il valore di un dramma si trovasse solo nel finale e nell’idea principale, allora il dramma stesso sarebbe la via più lontana, impervia e faticosa possibile per giungere alla meta; e così spero che la storia non riconosca il suo significato nei pensieri come una specie di fiore e frutto, ma piuttosto che il suo valore sia quello di riscrivere in modo ingegnoso un tema noto, forse consueto, una melodia quotidiana, di elevarla, di innalzarla a simbolo che abbraccia ogni cosa e così di far intuire nel tema originale un intero mondo di senso profondo, potenza e bellezza.
Ma a questo attiene soprattutto una grande potenza artistica, una creativa capacità di librarsi al di sopra, un essere sprofondati con amore nei dati empirici, un continuare a poetare secondo tipi dati – a questo attiene, senza dubbio, l’oggettività ma come qualità positiva. Ma così spesso l’oggettività è solo una frase fatta. Al posto di quella tranquillità dell’occhio artistico (internamente lampeggiante, esternamente immobile e scura) compare l’affettazione della tranquillità, come la mancanza di pathos e di forza morale si preoccupa di travestirsi da freddezza tagliente dell’osservazione. In certi casi la banalità dell’opinione, la saggezza popolare che fa l’impressione della tranquillità e dell’intangibilità solo per la sua noia, osa mettere la testa fuori per farsi valere per quella situazione artistica nel quale il soggetto tace e passa completamente inosservato. Allora viene tirato fuori tutto ciò che non emoziona affatto e la parola più asciutta è proprio quella giusta. Si arriva persino a supporre che colui, il quale non riguarda affatto un momento del passato, sia chiamato a rappresentarlo. Così spesso si comportano reciprocamente filologi e Greci: gli altri non li riguardano affatto – e questo lo si chiama anche “oggettività”! Dove ora dovrebbe essere rappresentata la cosa più alta e rara, lì l’essere estraneo, intenzionale e portato all’ostentazione, la piatta arte della motivazione tirata fuori in modo imparziale provoca indignazione, se cioè la vanità dello storico spinge a questa indifferenza che si comporta da oggettività. D’altronde nei confronti di tali autori il giudizio va motivato in modo più accurato in base alla norma secondo cui ogni uomo possieda tanta vanità quanto egli manchi di intelletto. No, siate almeno sinceri! Non cercate l’apparenza della forza artistica, che in realtà è da chiamare oggettività, non cercate l’apparenza della
giustizia, se non siete consacrati alla terribile professione del giusto. Come se fosse compito di
ogni epoca di dover essere giusta contro tutto ciò che c’era una volta! Epoche e generazioni non hanno mai il diritto di essere giudici di tutte le epoche e generazioni precedenti, ma piuttosto una missione così scomoda spetta sempre ai singoli, e in particolare ai più rari. Chi vi obbliga a giudicare? E poi verificate soltanto se riuscite ad essere giusti, se solo lo volete! Come giudici dovete sedere più in alto di colui che dovete giudicare, mentre voi siete arrivati solo dopo. Gli ospiti che arrivano tardi a tavola a buon diritto dovrebbero avere gli ultimi posti, e voi volete avere i primi? Ora
fate almeno la cosa più alta e grande, forse vi si farà posto veramente, anche se arriverete all’ultimo momento.
Solo a partire dalla più alta forza del presente vi è consentito interpretare il passato, solo nella più forte tensione delle vostre più nobili qualità indovinerete ciò che nel passato è degno di essere conosciuto e conservato e grande. L’uguale per l’uguale! Altrimenti tirate giù il passato verso di voi. Non credete ad una storiografia, se non salta fuori dalla testa degli spiriti più rari; ma voi noterete sempre di quale qualità è il suo spirito, quando sarà obbligata ad esprimere qualcosa di generale o a dire ancora una volta qualcosa di noto a tutti: il vero storico deve avere la forza di trasformare la vecchia moneta del noto a tutti in quella del mai sentito e di annunciare il generale in modo così semplice e profondo da non riuscire più a distinguere la facilità dalla profondità e la profondità dalla facilità. Nessuno può essere insieme un grande storico, un uomo d’arte e una testa vuota, ma al contrario non si dovrebbero sottovalutare i lavoratori che portano la carriola, fanno mucchi e la cernita, perché certamente non diventeranno grandi storici; ancora meno si dovrebbe scambiarli con quelli, ma piuttosto comprenderli come compagni necessari e manovali al servizio del maestro, così come i Francesi (con un’ingenuità maggiore di quella possibile fra i Tedeschi) erano soliti parlare degli historiens de M. Thiers. Questi lavoratori dovrebbero diventare gradualmente grandi eruditi, ma non potranno mai essere maestri, per questo motivo. Un grande erudito e una grande testa vuota – questo si combina già più facilmente sotto un solo cappello.
Quindi: la storia la scrive chi è esperto e superiore. Chi non ha vissuto qualcosa di più grande e di più alto rispetto a tutti gli altri, non saprà anche interpretare niente di grande e di alto del passato. Il motto del passato è sempre un motto oracolare: solo in quanto costruttori del futuro, solo in quanto conoscitori del presente lo capirete. Ora si chiarisce l’efficacia straordinariamente profonda ed estesa di quello di Delfi, per il fatto che i sacerdoti di Delfi erano precisi conoscitori del passato; ora è conveniente sapere che solo chi costruisce il futuro ha diritto a giudicare il passato.
Guardando avanti, prefiggendovi una grande meta, dominerete contemporaneamente quell’esuberante impulso analitico che vi rovina il presente e rende quasi impossibile ogni forma di tranquillità, ogni crescere e maturare pacifico. Tirate su intorno a voi lo steccato di una speranza grande ed estesa, di una tensione speranzosa. Formate in voi un’immagine al quale il futuro dovrà corrispondere, e dimenticate l’incredulità di essere epigoni. Voi avete abbastanza da ideare ed inventare meditando su quella vita futura, ma non chiedete alla storia che vi mostri il come e il con che cosa. Ma se voi vi adatterete alla storia di grandi uomini, così imparerete da lei il sommo comandamento di diventare maturi e di sfuggire all’incantesimo paralizzante dell’educazione del tempo, che vede la sua utilità nel non farvi diventare maturi per dominare e sfruttare voi, gli immaturi.
E se sentite il bisogno di biografie, allora non quelle con il ritornello “Il signor tizio e il suo tempo”, ma piuttosto quelle sulla cui copertina dovrebbe essere scritto “Un combattente contro il suo tempo”. Saziate le vostre anime con Plutarco e osate credere in voi stessi, credendo ai suoi eroi.
Con un centinaio di uomini educati in tal modo non moderno, cioè divenuti maturi e abituati alla dimensione eroica, ora si deve portare al silenzio eterno tutta la rumoreggiante culturetta di questo
tempo.

VII

Il senso storico, quando agisce e trae le sue conseguenze incontrollato, sradica il futuro, perché distrugge ogni illusione e toglie alle cose esistenti la sola atmosfera nella quale loro riescono a vivere. La giustizia storica, quando lei stessa viene esercitata realmente e con pura disposizione di idee, è per questo motivo una virtù terribile, perché mina da sotto e manda in rovina il vivente: il suo giudicare è sempre un annientare. Se dietro la spinta storica non agisce nessuna spinta costruttiva, se non si distrugge e non si fa ordine, affinché un futuro che vive già nella speranza costruisca la sua casa su un terreno liberato, se la giustizia agisce da sola, allora l’istinto creativo viene svuotato di forza e scoraggiato. Una religione, ad esempio, che debba essere mutata in sapere storico sotto l’azione della giustizia pura, una religione che debba essere riconosciuta in modo del tutto scientifico, è insieme distrutta alla fine di questa via. Il motivo si trova nel fatto che nel controllo storico ogni volta emergono tante cose false, rozze, disumane, assurde, violente, che uno stato d’animo così pieno d’illusione e di pietà, nel quale tutto ciò che vuol vivere riesce a vivere, necessariamente va in polvere; ma solo nell’amore, solo all’ombra dell’illusione d’amore l’uomo crea, cioè solo nella fede incondizionata in ciò che è perfetto e giusto. A chiunque, che si obblighi a non amare più in modo incondizionato, si sono tagliate le radici della sua forza: egli deve disseccarsi, cioè diventare insincero. In tali effetti

l’arte è opposta alla storia e solo se la storia sopporta di essere mutata in opera d’arte, di diventare una pura immagine artistica, può mantenere gli istinti o addirittura risvegliarli.

Ma una tale storiografia contraddirebbe senz’altro il lato analitico e non-artistico della nostra epoca, verrebbe certamente percepita come una falsificazione. Ma la storia, che distrugge solamente senza che la conduca una spinta costruttiva interiore, sulla durata rende i suoi strumenti indifferenti e innaturali, dato che tali uomini distruggono le illusioni e “chi distrugge le illusioni in sé e negli altri, questi viene punito dalla natura, il tiranno più severo”. Per un bel periodo di tempo ci si può occupare della storia in modo completamente innocuo e spensierato, come se
un’occupazione fosse buona come un’altra; in particolare la teologia moderna sembra essere entrata in relazione con la storia puramente per innocenza ed ora lei vuole a stento notare, con questo, di essere al servizio, probabilmente contro voglia, del voltairiano écrasez. Nessuno supponga dietro a ciò nuovi potenti istinti costruttivi: allora si dovrebbe far valere la cosiddetta Lega Protestante come grembo materno di una nuova religione e persino il giurista Holtzendorf (l’editore e il prefatore di una ancora più cosiddetta Bibbia Protestante) come Giovanni sul fiume Giordano. Per qualche tempo, forse, la filosofia hegeliana che ancora fuma nelle teste più vecchie aiuterà la propagazione di quella innocenza distinguendo l’“idea del cristianesimo” dalle sue incomplete “forme di apparizione” in modo molteplice e convincendosi che sia persino “il passatempo delle idee” a rivelarsi in forme sempre più pure, non ultima cioè come la forma certamente più pura, trasparente, a malapena visibile, nel cervello del contemporaneo theologus liberalis vulgaris.
Ma se si sentono questi purissimi cristianesimi esprimersi sui passati, impuri cristianesimi, l’ascoltatore non partecipe ha così spesso l’impressione che il discorso non riguardi affatto il cristianesimo, ma piuttosto – a che cosa dovremmo pensare ora, se troviamo il cristianesimo definito dal “più grande teologo del secolo” come la religione che consente di “sentirsi trasportati dentro in tutte le religioni reali ed anche in alcune altre puramente possibili” e se la “vera Chiesa” dovesse essere quella che “diventa una massa fluida, dove non ci sia alcun profilo, dove ciascuna parte si può trovare un momento qui, un momento là e ogni cosa si mescola pacificamente con l’altra”? – ancora
una volta: a che cosa dovremmo pensare?
Ciò che si può imparare nel cristianesimo, il fatto che sotto l’effetto di una cura storicizzante sia diventato indifferente e innaturale, fino a quando, infine, una cura completamente storica, cioè giusta, lo dissolve in puro sapere sul cristianesimo e quindi lo annulla: questo lo si può studiare in tutto ciò che ha vita; il fatto che abbia cessato di vivere, se vive fino alla fine sezionato e dolorosamente malato, se si cominciano a praticare le esercitazioni storiche di dissezione su di lui. Ci sono uomini che credono ad una forza di guarigione rivoluzionaria e riformatrice propria della musica tedesca fra i Tedeschi: essi avvertono con ira e ritengono un’ingiustizia commessa contro ciò che di più vivo vi sia nella nostra cultura se uomini come Mozart e Beethoven vengono sommersi già ora da tutta l’erudita confusione della passione per la biografia ed obbligati dal sistema di tortura della critica storica a dare risposte a migliaia di domande importune. Ciò che nei suoi vivi effetti non è ancora del tutto esaurito non viene eliminato troppo presto o almeno paralizzato, per il fatto che la brama del nuovo si rivolga a innumerevoli micrologie della vita e delle opere e ricerchi problemi della conoscenza là dove si dovrebbe imparare a vivere e a dimenticare tutti i problemi? Si trapiantino con l’immaginazione un paio di tali biografie moderne nei luoghi di nascita del cristianesimo o della Riforma luterana: la loro asciutta e pragmatizzante brama del nuovo sarebbe stata sufficiente per rendere impossibile ogni spettrale actio in dinstans, come la più misera bestia può impedire la nascita della quercia più possente ingoiando la ghianda. Ogni vivente necessita intorno a sé un’atmosfera, un misterioso cerchio di vapore; se gli si toglie questa guaina, se si condanna una religione, un’arte, un genio a girare in circolo come una stella senza atmosfera, così non ci si dovrebbe più meravigliare della loro veloce decomposizione, del processo di indurimento e infecondità. Così è almeno in tutte le grandi cose “che mai riescono senza una certa illusione”,
come dice Hans Sachs nei Maestri Cantori.
Ma persino ogni popolo, certo ogni uomo, che voglia diventare maturo ha bisogno di una tale illusione avvolgente, di una tale nube che difenda e che faccia da velo; ora, invece, si odia il diventare maturi, poiché si onora la storia più della vita. Certamente si celebra il trionfo per il fatto che “la scienza comincia a dominare la vita”: è possibile che lo si raggiunga, ma certamente una vita dominata in tal modo non è di valore, perché è molto meno vita e offre minori garanzie di vita per il futuro di una vita dominata un tempo non dal sapere, ma dagli istinti e da potenti immagini illusorie. Ma, come detto, questo non dovrebbe essere nemmeno il periodo delle personalità divenute compiute e mature, armoniche, ma piuttosto quello del lavoro comune il più utile possibile.
Questo significa solo: gli uomini dovrebbero essere adattati agli scopi dell’epoca per mettervi mano nel tempo più breve possibile; loro dovrebbero lavorare nella fabbrica dell’utilità generale prima che diventino maturi affinché non diventino affatto maturi – perché questo sarebbe un lusso che toglierebbe “al mercato del lavoro” una quantità di forza. Si accecano certi uccelli perché cantino meglio; io non credo che gli uomini attuali cantino meglio dei loro nonni, ma questo so: che li si acceca per tempo. Ma il mezzo, il mezzo pazzesco che si usa per accecarli, è la luce troppo chiara, troppo improvvisa, troppo mutevole. Il giovane uomo viene spedito con la frusta attraverso tutti i
millenni: giovani che non capiscono nulla di una guerra, di un’azione diplomatica, di una politica commerciale vengono ritenuti degni di essere introdotti alla storia politica. Ma così come il giovane uomo corre attraverso la storia, così corriamo noi moderni attraverso le gallerie d’arte, così ascoltiamo concerti. Ci si sente bene, questo suona diversamente da quello, questo ha una differente efficacia rispetto a quello: perdere sempre più questo senso di stupore, non stupirsi più di niente in modo eccessivo, alla fine farsi piacere tutto – questo si chiama una buona volta il senso storico, la cultura storica. Detto senza abbellimento dell’espressione: la massa di coloro che sciamano è così grossa, lo stupefacente, barbarico e violento irrompono in modo così potente, “ammassati in mucchi mostruosi”, sulla giovane anima, che la si può salvare solo con una stupidità intenzionale. Dove alla base si trovava una coscienza più raffinata e più forte, si presenta un’altra sensazione: il disgusto. Il giovane uomo è diventato così senza patria e dubita di ogni costume e concetto. Ora lo sa: in ogni epoca era diverso, non dipende da come tu sia. In una scoraggiata mancanza di sensazioni lascia passare in sé opinioni su opinioni e comprende le espressioni e l’umore di Hölderlin alla lettura di Diogene Laerzio della vita e dell’insegnamento di filosofi greci: “Io ho sperimentato qui di nuovo ciò che mi è già capitato, cioè che il transitorio e mutevole del pensiero e del sistema umano mi hanno colpito in modo più tragico dei destini che (di solito solo loro) si chiamano i reali”. No, un tale storicizzare invadente, assordante e violento non è certamente necessario per la gioventù, come mostrano gli antichi, ma sicuramente pericoloso al massimo grado, come mostrano i moderni. Ma si prenda in considerazione, ora, persino lo studente di storia, erede di un’indifferenza troppo precoce, divenuta visibile già nell’età dell’adolescenza. Ora si è appropriato del “metodo” come lavoro proprio, del giusto approccio e del tono nobile secondo la maniera del maestro; un capitoletto molto isolato del passato è caduto vittima del suo affilato senso critico e del metodo appreso; egli ha già prodotto, osiamo una parola più orgogliosa, ha già “creato”, è diventato ora servitore della verità nelle azioni e signore nell’ambito storico-universale. Se da adolescente era già “completo”, così ora è già ipercompleto: sarà sufficiente dargli una scrollata e la sapienza cadrà in grembo a qualcuno con un rumore tambureggiante; ma la sapienza è pigra
ed ogni mela ha il suo verme. Credetemi: se gli uomini lavorano e dovrebbero diventare utili nella fabbrica della scienza prima di essere maturi, così la scienza è rovinata in breve tempo tanto quanto gli schiavi usati troppo presto in questa fabbrica. Mi dispiace che si riveli già necessario servirsi della lingua gergale dei padroni di schiavi e dei datori di lavoro per descrivere tali rapporti, che dovrebbero essere pensati liberi dall’utilità in sé e tolti alla necessità vitale, ma involontariamente parole come “fabbrica, mercato del lavoro, offerta, sfruttamento” – e come suonano tutti i verbi ausiliari dell’egoismo – saltano in bocca, se si vuole tracciare una descrizione della più recente generazione di eruditi. La seria mediocrità diventa sempre più mediocre, la scienza sempre più utile in senso economico. In realtà gli eruditi più recenti sono sapienti solo su di un solo punto, in ciò sicuramente più sapienti di tutti gli uomini del passato, in tutti gli altri punti solo infinitamente differenti – detto facendo attenzione – da tutti gli eruditi della vecchia guardia. Nonostante ciò pretendono onori e vantaggi per sé, come se lo Stato e l’opinione pubblica fossero obbligati ad accettare per buone le monete nuove tanto quanto quelle vecchie. I carrettieri hanno stretto fra di loro un contratto di lavoro e decretato come superfluo il genio, trasformando ogni carrettiere in un genio con un timbro: probabilmente un’epoca successiva si accorgerà dai loro edifici che sono stati messi insieme con la carretta e non costruiti. A coloro che instancabilmente si ritrovano in bocca il grido di battaglia e di sacrificio “Divisione del lavoro! In riga!” è da dire chiaro e tondo una volta per tutte: se volete sostenere la scienza il più velocemente possibile, così la distruggerete il più velocemente possibile, come vi muore la gallina che costringete artificialmente a deporre le uova con troppa rapidità. Bene, la scienza è stata sostenuta negli ultimi decenni in modo sorprendentemente veloce, ma ora guardatevi gli eruditi, le galline spossate. Certamente non sono nature “armoniche”, possono solo schiamazzare ora più che mai, dato che depongono le uova più spesso; certamente le uova sono diventate più piccole (e insieme i libri più spessi). Come risultato ultimo e naturale emerge la generalmente amata “popolarizzazione” (accanto a “femminilizzazione” e “infantilizzazione”) della scienza, cioè il malfamato taglio su misura della scienza sul corpo del “pubblico misto”, per dedicarci qui una buona volta, per un’attività da sartoria, anche ad un tedesco da sartoria. Goethe vedeva in ciò un abuso e pretendeva che le scienze dovessero agire sul mondo esterno solo mediante una prassi elevata. Inoltre alle generazioni di eruditi più antiche un tale abuso appariva per buoni motivi pesante e tormentoso; allo stesso modo per buone ragioni riesce leggero ai più giovani eruditi, perché, a parte un angolo molto piccolo del sapere, essi stessi sono un pubblico misto e portano in sé le sue esigenze. Hanno bisogno solo di sedersi comodamente, così riesce loro di dischiudere all’esigenza-brama di novità misto-popolare anche il loro piccolo ambito di sapere. Per questo atto di comodità si pretende alla fine il nome di “modesta condiscendenza dell’erudito verso il suo popolo”, mentre in realtà l’erudito si è solo abbassato verso di sé, dato che non è erudito, ma solo plebe. Createvi il concetto di un “popolo”: non riuscirete mai a pensarlo abbastanza nobile ed elevato. Se pensaste al popolo con ampiezza, allora sareste anche misericordiosi verso lo stesso e vi terreste lontani dal proporgli il vostro acido nitrico storico come bevanda di vita e di refrigerio. Ma, nel vostro profondo, voi ne date di lui una valutazione modesta, perché del suo futuro non potete avere una considerazione vera e fondata con certezza, e vi comportate come pessimisti pratici, voglio dire come uomini che vengono guidati dal presagio del declino e che in questo modo diventano indifferenti e veniali verso l’estraneo come verso il proprio benessere. Se solo la terra ci porta ancora! E se non ci porta più, allora sarà giusto – così sentono e vivono un’esistenza ironica.

VIII

Può sembrare sorprendente, ma non contraddittorio che all’epoca, che è solita scoppiare in modo tanto rumoroso e importuno nella più spensierata esultanza per la sua cultura storica, nonostante ciò io attribuisca una forma di autocoscienza ironica, un incerto presagire che qui non vi è da esultare, una paura che forse presto finirà tutto il divertimento della coscienza storica. Un enigma simile in relazione a singole personalità ci è stato posto da Goethe con la sua notevole caratterizzazione di Newton: egli trova nel fondo (o, più giustamente, sulla sommità) del suo essere “un cupo presagio della sua colpa”, come l’espressione (osservabile solo in singoli momenti) di una più elevata coscienza giudicante, che avesse raggiunto una certa ironica visione d’insieme della natura necessaria che abita in lui. Così proprio negli uomini di storia sviluppati in modo maggiore e superiore si trova una coscienza, spesso attutita fino ad un generale scetticismo, di come sia grande la stupidità e la superstizione di credere che l’educazione di un popolo debba essere così prevalentemente storica come è ora; ma proprio i popoli più potenti, e potenti in azioni e opere, hanno vissuto in modo diverso, hanno cresciuto diversamente la loro gioventù. Ma quella stupidità, quella superstizione – così suona la replica scettica – si addice a noi, a noi arrivati tardi, ultimi frutti impalliditi di generazioni potenti e felicemente coraggiose, a noi ai quali va riportata la profezia di Esiodo che in futuro gli uomini nasceranno subito con i capelli grigi e che Zeus sradicherà questa generazione non appena sarà diventato visibile in lei quel segno. La cultura storica è davvero una forma di innato incanutimento e quelli che ne portano il segno su di sé dall’infanzia devono ben giungere alla fede istintiva nell’età avanzata dell’umanità; ma all’età avanzata spetta un’occupazione senile, cioè il guardare indietro, fare i conti, cercare consolazione in ciò che è stato, attraverso i ricordi, in breve una cultura storica. Ma il genere umano è una cosa ostinata e perseverante e non vuole essere preso in considerazione nei suoi passi, in avanti e indietro, secondo migliaia di anni, ma a malapena secondo centinaia di migliaia di anni, cioè non vuole affatto essere considerato come totalità a partire dall’infinitamente piccolo punticino atomico, il singolo uomo. Che cosa vogliono dire un paio di migliaia di anni (o, espresso altrimenti, il periodo di
tempo di 34 vite umane successive calcolate in circa 60 anni), per poter parlare all’inizio di un tale periodo di tempo di “giovinezza” e alla fine già di “età avanzata dell’umanità”! Non si nasconde piuttosto in questa fede paralizzante in un’umanità che già appassisce il malinteso di una concezione cristiano-teologica, ereditata dal Medioevo, l’idea della prossimità della fine del mondo, del giudizio atteso con angoscia? Quella concezione non cambia forse travestimento mediante l’accresciuta esigenza storica del giudizio, come se il nostro tempo stesso, l’ultimo dei possibili, avesse avuto l’autorizzazione a tenere quel giudizio universale su tutto il passato che la fede cristiana non si aspettava affatto dall’uomo, ma dal “Figlio dell’Uomo”? Un tempo questo “memento mori”, richiamato all’umanità così come al singolo, era un pungolo sempre tormentante e contemporaneamente la punta del sapere e della coscienza morale medievale. La parola dell’epoca moderna a lui contrapposta (“memento vivere”) suona, per parlare apertamente, ancora abbastanza intimorita, non è detta a squarciagola e ha quasi qualcosa di insincero. Dato che l’umanità si tiene ancora ben ferma al memento mori e lo rivela con la sua universale esigenza storica, il sapere, nonostante il suo potentissimo colpo d’ala, non ha potuto librarsi all’aria aperta, gli è rimasto un profondo senso di disperazione ed ha accettato quella colorazione storica dalla quale ora ogni educazione e cultura superiore è, con malinconia, oscurata. Una religione che ritenga di tutte le ore della vita umana l’ultima come la più importante, che preveda la fine della vita terrena e che condanni tutti i viventi a vivere nel quinto atto della tragedia, mette in moto certamente le forze più
profonde e più nobili, ma è ostile ad ogni nuova coltivazione, ad ogni tentativo audace, ad ogni libero desiderio, resiste ad ogni volo verso l’ignoto, perché lì non ama, non spera, solo controvoglia riesce ad accettare il diveniente, per spingerlo da parte o sacrificarlo al momento giusto come seduttore dell’esistenza, come un bugiardo riguardo il valore dell’esistenza. Ciò che i Fiorentini fecero quando, sotto l’impressione delle prediche penitenziali di Savonarola, organizzarono quei famosi falò di dipinti, manoscritti, specchi, maschere, questo vorrebbe fare il cristianesimo con ogni cultura che spinga per continuare a resistere e che sostenga quel memento vivere come slogan; e se non è possibile farlo per via diretta, senza girarci intorno, cioè attraverso una potenza superiore, così raggiunge comunque il suo scopo, quando si lega con la cultura storica, per lo più persino senza che questa lo sappia, ed ora, parlando a partire dal punto di vista della stessa, rifiuta ogni diveniente scrollando le spalle e diffonde su ciò il senso del tardivo e dell’epigonico, in breve dell’incanutimento innato. La considerazione dura e profondamente seria del disvalore di ogni evento, del senso della maturità del mondo per il giudizio, si è eclissato nella coscienza scettica che
sia una cosa buona conoscere ogni evento, perché è troppo tardi per fare qualcosa di meglio. Così il senso storico rende i suoi servitori passivi e retrospettivi; e quasi solo per momentanea dimenticanza, se proprio quel senso si interrompe, l’ammalato di febbre storica diventa attivo, non appena l’azione è passata, per sezionare i suoi atti, impedire il prolungarsi degli effetti mediante una considerazione analitica e, infine, scuoiarla per farla diventare storia. In questo senso viviamo ancora nel Medioevo, la storia è ancora una teologia travestita, come il timore reverenziale con cui il profano di scienza tratta la casta scientifica è un timore reverenziale ereditato dal clero. Ciò che
prima si dava alla Chiesa, si dà ora, anche se con maggiore parsimonia, alla scienza, ma il fatto di darlo è stato prodotto un tempo dalla Chiesa, ma non dallo spirito moderno, che piuttosto, pur con tutte le sue altre buona qualità, ha un qualcosa di avaro ed è un pasticcione nella nobile virtù della generosità.
Forse questa considerazione non piacerà, forse piacerà tanto poco quanto quella derivazione dell’eccesso di storia dal medievale memento mori e dalla disperazione che il cristianesimo porta nel cuore riguardo i tempi a venire dell’esistenza terrena, ma si dovrà pur sempre sostituire quella spiegazione da me posta in forma di dubbio con spiegazioni migliori, dato che l’origine della cultura storica – e della sua contraddizione internamente del tutto radicale contro lo spirito di una “nuova epoca”, di una “coscienza moderna” – questa origine deve essa stessa essere di nuovo riconosciuta storicamente, la storia deve risolvere il problema della storia stessa, il sapere deve volgere il suo pungolo verso se stesso – questo triplice deve è l’imperativo dello spirito della nuova epoca, nel caso che in lei vi sia davvero qualcosa di nuovo, potente, originale, promettente di vita. O finirebbe per essere vero che noi Tedeschi – per lasciar fuori dal gioco i popoli latini – in tutte le superiori questioni di cultura dobbiamo sempre essere solo dei “discendenti”, proprio perché possiamo essere solo questo, come è stato espresso da Wilhelm Wackernagel con un’affermazione molto convincente: “Noi Tedeschi siamo un popolo di discendenti, con tutto il nostro superiore sapere, persino con la nostra fede, siamo sempre solo successori del mondo antico; anche coloro che, di disposizione ostile, non vogliono, accanto allo spirito del cristianesimo, respirano incessantemente lo spirito immortale della cultura dell’antichità classica, e se a uno riuscisse di separare questi due elementi dall’aria vitale che avvolge l’uomo interiore, così non ne rimarrebbe molto per cavarci ancora una vita spirituale”. Ma se ci volessimo placare volentieri nella missione di essere discendenti dell’antichità, se solo fossimo decisi a prenderla davvero fermamente sul serio
e in grande ed a riconoscere in questa fermezza l’unico privilegio che ci contraddistingue, allora saremmo obbligati a chiedere, nonostante ciò, se la nostra destinazione debba essere eternamente quella di essere discepoli dell’antichità in declino. Un giorno o l’altro potrebbe essere permesso porre la nostra meta progressivamente sempre più in alto e sempre più lontano, un giorno o l’altro dovremmo poterci elogiare di aver ricreato lo spirito della cultura romano-alessandrina in noi – anche attraverso la nostra storia universale – in modo così fecondo e magnifico da poterci
porre, come la ricompensa più nobile, il compito ancora più gigantesco di mirare dietro ed al di là di questo mondo alessandrino e di cercare coraggiosamente i nostri esempi nell’originario mondo greco del grande, del naturale, dell’umano. Ma là troviamo anche la realtà di una cultura essenzialmente non-storica e di una cultura, nonostante ciò o piuttosto proprio per questo, indicibilmente ricca e piena di vita. Se noi Tedeschi stessi non fossimo nient’altro che discendenti, non potremmo, guardando ad una tale cultura come eredità di cui impossessarci, essere, infatti, niente di più grande e di più orgoglioso che discendenti.
Con ciò dovrebbe essere detto solo questo e nient’altro che questo, che il pensiero, che spesso dà un’impressione imbarazzante, di essere epigoni, pensato in grande, può garantire grandi effetti e una domanda di futuro ricca di speranze sia al singolo sia ad un popolo, in quanto noi ci comprendiamo, cioè, come eredi e discendenti di potenze classiche e straordinarie e vediamo in ciò il nostro onore, il nostro stimolo, non, quindi, come frutti tardivi impalliditi e atrofizzati di generazioni potenti, che conducono a stento una vita da brividi come antiquari e becchini di quella stirpe. Tali frutti tardivi vivono certamente un’esistenza ironica: l’annullamento sta alle calcagna del loro zoppicante percorso di vita, hanno i brividi lungo la schiena davanti a lui, quando si rallegrano del passato, dato che sono ricordi viventi e, tuttavia, è insensato il fatto di ricordare senza eredi. Così li circonda il cupo presagio che la loro vita sia una colpa, dato che nessuna vita a venire può darle ragione.
Se pensassimo tali antiquari frutti tardivi scambiare improvvisamente la sfrontatezza per quella modestia ironico-dolorosa; se li pensiamo mentre annunciano con voce rintronante: la generazione si trova al suo sommo, dato che solo ora possiede il sapere su di sé e si è rivelata a se stessa, così avremmo uno spettacolo in cui si chiarirebbe, come in una parabola, l’ambiguo significato di una certa famosissima filosofia per la cultura tedesca. Credo che non ci sia stata nessuna pericolosa oscillazione o svolta della cultura tedesca in questo secolo che sia divenuta maggiormente
pericolosa per gli effetti mostruosi e fino al momento torrenziali di questa filosofia, quella hegeliana. È veramente paralizzante ed irritante la “fede” di essere un frutto tardivo dei tempi, ma terribile e distruttivo deve sembrare se una tale “fede” un giorno divinizzi, con audace rovesciamento, questo frutto tardivo come il vero senso e scopo di ogni evento passato, se la sua sapiente indigenza viene equiparata al compimento della storia universale. Un tale modo di considerare ha abituato i Tedeschi a parlare di “processo universale” ed a giustificare la propria epoca come il risultato necessario di questo processo universale; un tale modo di considerare ha posto la storia al posto delle altre forze spirituali, arte e religione, come unica sovrana, in quanto lei è “il concetto che realizza se stesso”, in quanto lei è la “dialettica degli spiriti dei popoli” e il “giudizio universale”.
Si è chiamato con derisione questa storia intesa hegelianamente il passeggiare di Dio sulla terra, il quale Dio, dal suo lato, viene fatto solo dalla storia. Ma questo Dio è divenuto, all’interno delle cortecce cerebrali hegeliane, trasparente e comprensibile a se stesso ed è già salito per tutti i gradi dialetticamente possibili del suo divenire, fino a quello dell’autorivelazione, cosicché per Hegel il punto massimo e quello finale del processo universale sono coincisi con la sua esistenza berlinese. Certamente egli avrebbe dovuto dire che tutte le cose che venissero dopo di lui in realtà
sono una coda musicale del rondò storico-universale, ancora più propriamente da considerare come superflue. Questo lui non l’ha detto, ma ha impiantato nelle generazione fatte lievitare da lui quella meraviglia davanti alla “potenza della storia”, che muta praticamente ogni momento in nuda ammirazione del successo e conduce all’idolatria del reale; per tale idolatria si è fatto generalmente esercizio oggi della svolta molto mitologica e oltre a ciò tedesca per davvero del “tener conto del reale”. Ma chi solo ha imparato ad abbassare la schiena e curvare il capo davanti alla “potenza della storia”, quegli fa cenno di sì alla maniera cinese-meccanica verso ogni potenza, che
sia questa ora un governo o un’opinione pubblica o la maggioranza numerica, e muove ogni suo membro secondo il ritmo in cui una qualche “potenza” tira le fila. Se ogni successo contiene in sé una necessità razionale, se ogni accadimento è la vittoria del “logico” o dell’“idea”, allora svelti sulle ginocchia e si faccia inginocchiati tutta la scala graduata dei “successi”. Che cosa? Non ci sarebbe più mitologia? Che cosa? Le religioni starebbero per scomparire? Guardatevi solo le religioni della potenza storica, prestate attenzione ai preti della mitologia delle idee e alle loro ginocchia sbucciate! Non sono persino tutte le virtù al seguito di questa nuova fede? O non è forse disinteresse se l’uomo storico si lasci soffiare per diventare un oggettivo vetro da specchi? Non è forse generosità rinunciare ad ogni violenza in cielo e sulla terra, adorando in ogni violenza la violenza in sé? Non è forse giustizia avere sempre in mano i piatti della bilancia e stare ad osservare precisamente quale scende come il più forte e il più pesante? E che scuola di buon comportamento è una tale considerazione della storia! Prendere tutto oggettivamente, non essere adirato per nessuna cosa, non amare nulla, comprendere tutto, come rende miti ed elastici questo; e se per una volta uno cresciuto in questa scuola si adira e si arrabbia pubblicamente, così ci si rallegra perché si sa certamente che ciò è inteso in senso artistico, è ira e studium (ira e passione), ma del tutto sine ira et studio (senza ira e passione).
Che pensieri logorati ho nel cuore contro un tale complesso di mitologia e virtù! Ma dovrebbero una buona volta venire fuori e si dovrebbe sempre riderne. Io direi, quindi, che la storia imprime sempre il suo sigillo: “c’era una volta”; la morale: “non dovreste” oppure “non avreste dovuto”. Così la storia diventa un compendio di reale immoralità. Come si sbaglierebbe pesantemente colui che immaginasse la storia nello stesso momento come giudice di questa reale immoralità! Ad esempio offende la morale il fatto che un Raffaello sia dovuto morire a 36 anni: un tale essere non dovrebbe morire. Se voi volete andare in aiuto della storia, come apologeti del reale, allora direte: ha espresso tutto ciò che c’era in lui, in una vita più lunga avrebbe potuto creare sempre e solo il bello come identico bello, non come nuovo bello, ed affermazioni simili. Così diventate avvocati del diavolo, rendendo il successo, il fatto, vostro idolo, mentre il fatto è sempre stupido ed in ogni epoca è stato considerato più simile ad un vitello che ad un Dio. Inoltre, in quanto apologeti della storia, l’ignoranza vi fa da suggeritore: solo perché non sapete che cosa sia una natura naturans come Raffaello, non vi scalda affatto che lei sia stata e non sarà più. In tempi recenti qualcuno ha voluto indottrinarci a proposito di Goethe sul fatto che ad 82 anni avesse esaurito il suo compito, e tuttavia scambierei un paio d’anni del Goethe “esaurito” con interi vagoni di vite completamente fresche e ultramoderne, per aver parte a tali colloqui, come quelli di Goethe con Eckermann, e per rimanere in questo modo protetto soprattutto dai contemporanei indottrinamenti dei legionari del momento. Quanti pochi viventi hanno, di fronte a tali morti, un qualche diritto di vivere! Il fatto che molti vivano e che quei pochi non vivano più non è solo una brutale verità,
cioè una irrimediabile sciocchezza, un grossolano “è così” di fronte alla morale “non dovrebbe essere così”. Certo, di fronte alla morale! Si parli di qualsiasi virtù si voglia, della giustizia, della generosità, del coraggio, della compassione dell’uomo – ovunque è virtuoso ribellarsi contro quella cieca potenza dei fatti, contro la tirannia del reale e sottomettendosi a leggi che non sono le leggi delle fluttuazioni storiche. Egli nuota sempre contro le ondate storiche, sia che combatta le sue passioni come la più prossima stupida realtà della sua esistenza, o sia che egli si obblighi alla sincerità, mentre la menzogna tesse attorno a lui le sue tele luccicanti. Se la storia non fosse null’altro che il “sistema universale di passione ed errore”, allora l’uomo dovrebbe leggere in lei come Goethe consigliava di leggere il Werther, proprio come se gridasse: “Sii uomo e non seguirmi!”.
Ma fortunatamente lei conserva anche il ricordo dei grandi combattenti contro la storia, cioè contro il cieco potere del reale e si espone essa stessa allo scherno mettendo in evidenza come nature davvero storiche quelle che si preoccuparono cosi poco del “così è” da seguire piuttosto con sereno orgoglio un “così dovrebbe essere”. Non portare la sua generazione alla tomba, ma piuttosto fondare una nuova generazione: questo li spinge instancabilmente avanti, e se loro stessi nascono come frutti tardivi, c’è un modo di vivere per farlo dimenticare – le generazioni a venire li conosceranno solo come primizie.

IX

È forse il nostro tempo una tale primizia? Infatti la veemenza del suo senso storico è così grande e si manifesta in una maniera così universale e assolutamente illimitata che almeno i tempi a venire proclameranno la sua natura di primizia, nel caso in cui, cioè, ci saranno tempi a venire intesi nel senso della cultura. Ma proprio a questo riguardo rimane un pesante dubbio. Nelle immediate vicinanze dell’orgoglio dell’uomo moderno sta la sua ironia su se stesso, la sua coscienza di dover vivere in un tempo storicizzante e contemporaneamente al tramonto, la sua paura di non poter salvare nel futuro più niente delle sue speranze e forze di gioventù. Qui e là si va ancora avanti nel cinico e si giustifica il percorso della storia, anzi l’intero sviluppo universale propriamente per l’uso giornaliero dell’uomo moderno secondo il canone cinico: proprio così doveva succedere, come va proprio ora, così e non altrimenti doveva diventare l’uomo, come sono ora gli uomini, contro questo Deve nessuno si può ribellare. Nel benessere di un tale cinismo si rifugia colui che non riesce a rimanere nell’ironia, inoltre l’ultimo decennio gli offre come regalo una delle sue più belle invenzioni, una frase tonda e piena per quel cinismo, che definisce il suo modo di vivere attuale e senza esitazioni “la piena abnegazione della personalità al processo universale”. La personalità e il processo universale! Il processo universale e la personalità della pulce di terra! Se solo non si dovesse sentire eternamente l’iperbole di ogni iperbole, la parola mondo, mondo, mondo, dato che ciascuno, sinceramente, dovrebbe parlare solo di uomo, uomo, uomo! Eredi dei Greci e dei Romani? Del cristianesimo? Tutto questo sembra nulla a quel cinico, ma eredi del processo universale! Vertici e bersagli del processo universale! Senso e soluzione di tutti gli enigmi del divenire
espressi nell’uomo moderno, il frutto più maturo presente sull’albero della conoscenza! Io chiamo questo una tronfia forma di esaltazione, da questo marchio sono riconoscibili le primizie di ogni epoca, se anche fossero arrivate all’ultimo momento. La considerazione storica non è mai volata così lontano, neanche se lo avesse sognato, dato che ora la storia umana è solo il seguito di quella animale e vegetale. Certamente nei livelli più profondi del mare l’universalista storico trova ancora le tracce di se stesso come mucillagine vivente; contemplando la gigantesca strada che l’uomo ha già percorso come se fosse un miracolo, allo sguardo vengono le vertigini di fronte al miracolo ancora più stupefacente, di fronte allo stesso uomo moderno che può dominare con lo sguardo questa strada. Egli sta alto e orgoglioso sulla piramide del processo universale, ponendovi sopra la pietra finale della sua conoscenza sembra gridare alla natura intorno: “Noi siamo al traguardo, noi siamo il traguardo, noi siamo la natura compiuta”.
Iperorgoglioso europeo del XIX secolo, tu deliri! Il tuo sapere non porta a compimento la natura, ma piuttosto uccide la tua propria. Misura solo per una volta la tua altezza, come colui che conosce, con la tua bassezza, come colui che può. Certamente ti arrampichi sui raggi del sole salendo verso il cielo, ma scendendo anche verso il caos. Il tuo modo di procedere, cioè di arrampicarti come colui che sa, è il tuo sventurato destino, il terreno e il suolo si ritirano per te nell’incerto, per la tua vita non ci sono più appoggi, ma solo fili di ragnatela che vengono strappati da ogni nuovo
aggancio della tua conoscenza. Su ciò niente più parole serie, dato che è possibile dirne di serene.
Il delirante e sbadato mandare in frantumi e disintegrare tutte le fondamenta, la loro dissoluzione in un divenire che sempre scorre e si liquefa, l’instancabile spezzettare e storicizzare ogni cosa divenuta da parte dell’uomo moderno, il grosso ragno crociato nel nodo della tela del cosmo – questo potrebbe tenere occupato e preoccupare il moralista, l’artista, il pio, persino l’uomo di Stato. Per quanto ci riguarda, oggi ci dovrebbe rasserenare il fatto di vedere tutto questo nel brillante specchio magico di un parodista filosofico, nella cui testa il tempo è giunto alla coscienza ironica
su se stesso, ovvero chiaramente “alla pazzia” (per parlare goethiano). Hegel ci ha insegnato una buona volta “se lo spirito dà una scrollata, là siamo presenti anche noi filosofi”: il nostro tempo diede una scrollata verso l’autoironia e vedi! là era presente anche E. von Hartmann e aveva scritto la sua nota Filosofia dell’inconscio o, per parlare più chiaramente, la sua filosofia dell’ironia inconscia. Raramente abbiamo letto un’invenzione più divertente e una burla più filosofica di quella di Hartmann: chi non viene illuminato e messo in ordine nell’interiorità da lui a proposito del divenire, è davvero pronto per l’essere stato. Inizio e scopo del processo universale, dal primo spuntone di coscienza fino al venir respinti verso il nulla, insieme al compito vero e proprio della nostra generazione per il processo universale, tutto è rappresentato a partire dalla sorgente d’ispirazione dell’inconscio così spiritosamente inventata, che illumina in una luce apocalittica; tutto è copiato in un modo così ingannevole e con anche troppo retta serietà, come se fosse davvero filosofia seria e non solo filosofia per divertimento – una tale totalità pone il suo creatore come uno dei primi filosofi parodisti di tutti i tempi. Sacrifichiamo, quindi, sul suo altare, sacrifichiamo a lui, all’inventore di una vera medicina universale, un ricciolo di capelli – per rubare un’espressione di meraviglia di Schleiermacher, dato che quale medicina sarebbe più salutare contro l’eccesso di cultura storica della parodia di Hartmann di tutta la storia universale?
Se si vuole esprimere con asciuttezza ciò che Hartmann ci annuncia dal tripode fumoso dell’ironia inconscia, allora ci sarebbe da dire: egli ci annuncia che il nostro tempo deve essere proprio così com’è, se l’umanità per una volta deve essere seriamente sazia di questa esistenza, cosa alla quale noi crediamo di buon cuore. Quella spaventosa fossilizzazione del tempo, quell’inquieto battere di ossa – come David Strauss ci ha ingenuamente descritto quale più bella oggettività – viene giustificata da Hartmann non solo da dietro (ex causis efficientibus), ma anche da davanti (ex causa finali); a partire dall’ultimo giorno il burlone fa brillare la luce sul nostro tempo e allora si trova che questo è davvero molto buono, cioè per quello che vuole soffrire al massimo grado possibile di indigeribilità della vita e non riesce ad avvicinare con il desiderio quell’ultimo giorno abbastanza velocemente. Infatti Hartmann chiama l’età di vita alla quale l’umanità ora si avvicina l’“età maschile”, ma questa, secondo la sua descrizione, è la condizione fortunata nella quale c’è solo “solida mediocrità” e l’arte è ciò che “è di sera la farsa per l’agente di borsa di Berlino”,
dove “i geni non sono più un’esigenza del tempo, perché sarebbe come gettare le perle ai porci, o anche perché il tempo è andato oltre lo stadio al quale competono i geni, verso uno più importante”, cioè verso quello stadio dello sviluppo sociale nel quale ogni lavoratore “conduce un’esistenza confortevole con un orario di lavoro che gli lasci sufficiente tempo libero per la sua formazione intellettuale”. Burlone di tutti i burloni, tu esprimi la brama dell’umanità attuale, ma sai allo stesso modo quale fantasma sorgerà alla fine di questa età dell’uomo dell’umanità come risultato di quella formazione intellettuale alla solida mediocrità – il disgusto. Evidentemente la cosa va in un modo pietoso, ma proseguirà in un modo ancora più pietoso, “evidentemente l’anticristo dilagherà e continuerà a dilagare intorno a sé”, ma deve essere così, deve proseguire così, dato che con tutto questo siamo sulla via migliore – verso il disgusto per l’esistente. “Perciò vigorosamente avanti nel processo del mondo come lavoratori nella vigna del Signore, perché solo il processo è ciò che può condurre alla redenzione!”
La vigna del Signore! Il processo! Alla redenzione! Chi non vede e non ode qui la cultura storica che conosce solo la parola “divenire”, come si traveste intenzionalmente da mostro parodistico e come dice le cose più sfrenate su se stessa mostrando la smorfia grottesca! Che cosa pretende davvero quest’ultimo astuto richiamo dei lavoratori nella vigna? In quale lavoro dovrebbero spingersi vigorosamente avanti? O, per domandarlo in modo diverso: che cosa deve ancora fare colui che è stato formato storicamente, il moderno fanatico del processo che nuota ed è affogato nel fiume del divenite, per vendemmiare un giorno quello schifo, l’uva deliziosa di quella vigna? Non gli rimane altro da fare che continuare a vivere come ha vissuto, continuare ad amare ciò che ha amato, continuare ad odiare ciò che ha odiato e continuare a leggere i giornali che ha letto, per lui c’è solo un unico peccato – vivere diversamente da come ha vissuto. Ma come egli abbia vissuto ce lo dice con chiarezza persino eccessiva, da incisione su pietra, quella pagina nota con le frasi stampate in maiuscolo, sulla quale è caduta in cieco entusiasmo ed entusiastica pazzia tutta l’attuale feccia della cultura, perché credette di leggere in queste frasi la sua propria giustificazione, ovvero la sua giustificazione in una luce apocalittica, dato che il parodista inconscio pretendeva da ogni singolo “la piena abnegazione della personalità al processo del mondo per il suo scopo, la redenzione del mondo”; o ancora più chiaramente: “l’affermazione della volontà di vivere viene proclamata come la sola cosa giusta al momento, perché solo nella piena abnegazione alla vita e alle sue pene, non nella rinuncia e nel ritrarsi codardo e personale, si può compiere qualcosa per il processo universale”, “aspirare alla negazione individuale della volontà è così folle e inutile, ancora più folle del suicidio”. “Il lettore pensante capirà anche senza altre spiegazioni come si realizzerebbe una filosofia pratica costruita su questi principi, e che una filosofia tale potrà contenere non la frattura, ma la piena conciliazione con la vita”.
Il lettore pensante lo capirà: e si è potuto fraintendere Hartmann! E come è indicibilmente divertente il fatto di averlo frainteso! Dovrebbero essere molto fini i Tedeschi attuali? Un Inglese sveglio sente in loro la mancanza della delicacy of perception, certamente osa dire “in the German mind there does seem to be something splay, something blunt edged, unhandy and infelicitous” – controbatterebbe il grande parodista tedesco? Sicuramente ci avviciniamo, secondo la sua spiegazione, “a quella condizione ideale, in cui il genere umano fa la sua storia con coscienza”, ma
evidentemente siamo ancora abbastanza lontani da quello ancora più ideale, in cui l’umanità legge il libro di Hartmann con coscienza. Appena ci si arriverà, allora nessun uomo si lascerà più scappare dalla bocca la parola “processo universale”, senza che la bocca sorrida, dato che ci si ricorderà del tempo in cui si ascoltava, succhiava, discuteva, onorava, diffondeva e canonizzava il vangelo parodistico di Hartmann con tutta la rettitudine di quella “german mind”, sì con la “deformata serietà della civetta”, come dice Goethe. Ma il mondo deve andare avanti, quello stato ideale non può essere sognato, deve essere ottenuto combattendo e solo attraverso la serenità passa la via per la redenzione, per la redenzione da quella fraintesa serietà da civetta. Ci sarà un tempo nel quale ci si asterrà saggiamente da tutte le costruzione del processo universale o anche della storia dell’umanità, un tempo in cui non si prenderanno più in considerazione le masse, ma di nuovo i singoli, che formeranno una specie di ponte sopra la confusa corrente del divenire. Forse questi non continuano un processo, ma vivono piuttosto contemporaneamente e senza tempo, grazie alla storia che permette una tale cooperazione, vivono come la repubblica dei geniali della quale
racconta una volta Schopenhauer: un gigante grida all’altro attraverso i deserti intervalli dei tempi e l’alto colloquio degli spiriti continua indisturbato dai nanerottoli spavaldi e chiassosi che si muovono strisciando sotto di loro. Il compito della storia è di fare da mediatrice fra di loro e di suscitare sempre nuovi motivi e forze per la produzione di ciò che è grande. No, lo scopo dell’umanità non può essere alla fine, ma solo nei suoi più alti esemplari.
Invece il nostro divertente personaggio dice sicuramente, con quella dialettica degna di ammirazione, che è vera tanto quanto i suoi ammiratori sono degni di ammirazione: “Quanto poco si accorderebbe con il concetto dello sviluppo ascrivere al processo universale una durata infinita nel passato, perché allora ogni sviluppo pensabile dovrebbe già essere stato percorso, cosa che invece non è” (oh, mattacchione!) “altrettanto poco possiamo ammettere per il processo una durata infinita per il futuro; entrambe le cose eliminerebbero il concetto di sviluppo verso una meta” (oh, ancora una volta mattacchione) “e si equiparerebbe il processo universale all’attingere acqua delle Danaidi. Ma la vittoria completa del logico sull’illogico” (oh mattacchione dei mattacchioni) “deve coincidere con la fine temporale del processo universale all’ultimo giorno”. No, spirito chiaro e sprezzante, fino a quando l’illogico avrà ancora il primato come al giorno d’oggi, fino a quando, per esempio, si potrà parlare ancora di “processo universale” con il consenso generale, come fai tu, l’ultimo giorno è ancora lontano, perché c’è ancora troppa serenità su questa terra, fiorisce ancora qualche illusione, per esempio l’illusione dei tuoi contemporanei su di te: noi non siamo ancora abbastanza maturi per essere catapultati indietro nel tuo nulla, perché crediamo che qui le cose si faranno persino più divertenti, se solo si è cominciato a comprenderti, tu inconscio incompreso. Ma se, tuttavia, il disgusto dovesse venire per forza, così come tu hai profetizzato ai tuoi lettori, se tu dovessi avere ragione con la tua descrizione del tuo presente e futuro (e nessuno ha così disprezzato entrambi come tu li hai disprezzati con disgusto), allora ben volentieri sono pronto a votare con la maggioranza nella forma da te proposta, che al prossimo sabato sera puntualmente alle dodici il tuo mondo tramonterà, e il nostro decreto potrebbe concludere: a partire da domani non ci sarà più il tempo e non usciranno più giornali. Ma forse l’effetto mancherà e noi abbiamo decretato per niente, allora non ci mancherà in ogni caso il tempo per un bell’esperimento. Prendiamo una bilancia e mettiamo su un piatto l’inconscio di Hartmann e sull’altro il processo universale di Hartmann. Ci sono uomini che credono che peseranno uguale, dato che in ogni piatto si troverebbe una parola ugualmente cattiva e uno scherzo ugualmente buono. Se per una volta lo scherzo di Hartmann è compreso, allora nessuno avrà più bisogno dell’espressione “processo universale” di Hartmann, se non per scherzo. In realtà, è già da lungo tempo ora di farsi avanti contro gli
eccessi del senso storico, contro la brama eccessiva per il processo a spese dell’essere e del vivere, contro l’insensato rinvio di ogni prospettiva con tutta la leva di malvagità satiriche; e si dovrebbe costantemente ripetere a lode dell’autore della filosofia dell’inconscio, che a lui per primo è riuscito di avvertire acutamente il ridicolo nella rappresentazione del “processo universale” e, con la particolare serietà della sua rappresentazione, a farlo avvertire ancora più acutamente. Per quale motivo esista il “mondo”, per quale motivo esista l’“umanità”, di ciò non ci dovremmo temporaneamente affatto curare, a meno che vogliamo farci uno scherzo, dato che la presunzione del piccolo verme umano è una buona volta la cosa più scherzosa e serena sulla faccia della terra; ma per quale motivo esisti tu, individuo, chieditelo e se nessuno te lo può dire, allora cerca per una volta di giustificare il senso della tua esistenza, in un certo modo, a posteriori, ponendoti tu stesso uno scopo, una meta, un “per questo motivo”, un alto e nobile “per questo motivo”. Muori solo per lui – non conosco nessuno scopo migliore nella vita che morire, animae magnae prodigus, per il grande e l’impossibile. Se, al contrario, le dottrine del divenire sovrano, del fluire di tutti i concetti, tipi e modi, della mancanza di ogni differenza cardinale fra uomo e animale (dottrine che ritengo vere, ma mortali) saranno gettate sul popolo ancora per una generazione nella frenesia attuale per l’indottrinamento, allora nessuno dovrebbe meravigliarsi, se il popolo morirà di qualcosa di egoisticamente piccolo e misero, di fossilizzazione ed egoismo, cioè in primo luogo cadrà in pezzi e smetterà di essere popolo: al suo posto, allora, si presenteranno sulla scena del futuro forse sistemi di egoismi individuali, fraternizzazioni allo scopo dello sfruttamento rapace dei non-fratelli e simili creazioni di utilitaristica meschinità. Si continui ad andare avanti a fare il lavoro preparatorio per queste creazioni, a scrivere la storia dal punto di vista delle masse e cercare in lei quelle leggi che si possono trarre dalle esigenze di queste masse, quindi le leggi di movimento delle classi sociali inferiori, fatte di argilla e di creta. Le masse mi sembrano meritare uno sguardo solo per tre aspetti: primo come copie sfumate dei grandi uomini, prodotte con carta cattiva e con lastre logorate, poi come resistenza verso i grandi e poi come attrezzi dei grandi; per il resto, che se le pigli il diavolo e la statistica. Come, la statistica dimostrerebbe che ci sono leggi nella storia? Leggi?
Sì, lei dimostra come sia meschina e disgustosamente uniforme la massa: si dovrebbero chiamare leggi gli effetti delle forze di gravità quali la stupidità, lo scimmiottamento, l’amore e la fame?
Certo, lo vogliamo ammettere, ma con ciò rimane ferma la frase: fino a quando ci sono leggi nella storia, le leggi non valgono niente e la storia non vale niente. Ma ora, in generale, viene tenuto in alta considerazione proprio quel genere di storia che ritiene i grandi istinti di massa come la cosa più importante e principale nella storia e considera tutti i grandi uomini solo come l’espressione più chiara, quasi come le bollicine che diventano visibili sulla marea. Quindi, la massa dovrebbe generare da sé il grande, il caos l’ordine; alla fine viene naturalmente intonato l’inno alla massa generatrice. “Grande” viene chiamato, allora, tutto ciò che per un periodo di tempo più lungo ha mosso una tale massa e, come si dice, è stato “una potenza storica”. Ma questo non significa scambiare intenzionalmente quantità e qualità? Se la massa grossolana ha trovato abbastanza adeguato un pensiero, per esempio un pensiero religioso, lo ha difeso strenuamente e portato avanti per secoli, allora, e solo allora, sarà grande l’inventore e fondatore di quel pensiero. Ma perché? La cosa più nobile ed alta non ha effetto sulle masse: il successo storico del cristianesimo, la sua potenza storica, tenacia e durata temporale, tutto questo fortunatamente non dimostra nulla in relazione alla grandezza del suo fondatore, dato che dimostrerebbe contro di lui, ma fra lui e quel successo storico si trova uno strato molto terreno ed oscuro di passioni, errori, brama di potere ed onore, forze ancora efficaci dell’imperium romanum (impero romano), uno strato dal quale il cristianesimo ha ricevuto quel gusto e residuo terreno che gli ha reso possibile la permanenza in questo mondo e contemporaneamente gli ha dato stabilità. La grandezza non dovrebbe dipendere dal successo, e Demostene possedeva grandezza, sebbene non avesse successo. I più puri e sinceri seguaci del cristianesimo hanno sempre messo in questione ed intralciato, più che sostenuto, il suo successo mondano, la sua cosiddetta “potenza storica”, dato che si preoccupavano di porsi fuori “dal mondo” e non del “processo dell’idea cristiana”; per questo motivo essi sono rimasti per la storia del tutto ignoti ed innominati. Espresso in modo cristiano: così è il diavolo il reggente del mondo e il maestro del successo e del progresso, in tutte le potenze storiche è la vera potenza, e rimarrà essenzialmente così, anche se potrebbe suonare abbastanza imbarazzante alle orecchie di un’epoca che è abituata alla divinizzazione del successo e della potenza storica. Infatti, si è esercitata a chiamare in modo nuovo le cose e a battezzare di nuovo il diavolo. È certamente l’ora di un grosso pericolo: gli uomini sembrano vicini a scoprire che l’egoismo dei singoli, dei gruppi o delle masse è stato in ogni epoca la leva di ogni movimento storico; contemporaneamente non si è in nessun modo tranquillizzati da questa scoperta, ma piuttosto si decreta: l’egoismo deve essere il nostro dio. Con questa nuova fede ci si mette a basare la storia a venire sull’egoismo con la più evidente delle intenzioni, solo dovrebbe essere un egoismo astuto, uno tale che si ponga alcune limitazioni, per consolidarsi durevolmente, uno tale che stia studiando la storia, per conoscere l’egoismo sciocco. In questo studio si è imparato che allo Stato spetta una missione molto particolare nel sistema universale dell’egoismo da fondare: deve diventare il patrono di tutti gli egoismi astuti, per difenderli, con la sua violenza militare e poliziesca, dalle terribili esplosioni dell’egoismo sciocco. Allo stesso scopo anche la storia – e cioè come storia animale e vegetale – viene infilata nelle masse popolari, pericolose perché sciocche, e nelle classi lavoratrici, dato che si sa che un granellino di cultura storica è in grado di spezzare istinti e brame rozze e grevi o di condurre sul percorso dell’egoismo raffinato. In summa: ora l’uomo, per parlare con E. von Hartmann, prende in considerazione “una sistemazione praticamente confortevole nella patria terrena che guardi saggiamente al futuro”. Lo stesso scrittore chiama un tale periodo l’“epoca da maschi dell’umanità” ed ha con ciò un atteggiamento sprezzante verso ciò che ora viene chiamato “uomo”, come se sotto queste definizioni venisse inteso solo l’egoista disilluso; come egli similmente profetizza dopo una tale età dell’uomo una corrispondente età senile, evidentemente facendosi beffa in questo modo dei nostri vegliardi contemporanei, dato che parla della matura tranquillità con cui essi contemplano “tutte le sofferenze della loro vita passata, attraversata in modo tempestoso e dissoluto, e comprendono la vanità dei presunti traguardi ai quali fino ad ora aspiravano”. No, ad un’età da maschi di quell’egoismo astuto e formato storicamente corrisponde un’età senile che si tiene attaccata alla vita con brama disgustosa e senza dignità, e infine un ultimo atto con cui “si chiude la storia insolitamente mutevole, come seconda infanzia, totale dimenticanza, senza occhi, senza denti, gusto e niente”.
Che ora i pericoli della nostra vita e della nostra cultura vengano da questi vegliardi dissoluti, senza denti e senza gusto o dai cosiddetti “uomini” di Hartmann, di fronte ad entrambi vogliamo tenerci saldi coi denti al diritto della nostra gioventù e non essere mai stanchi di difendere il futuro nella nostra gioventù contro quelli che si avventano sulle immagini di futuro. In questa battaglia dobbiamo, però, anche fare una considerazione particolarmente terribile: che le esagerazioni del senso
storico, di cui soffre il presente, vengono intenzionalmente sostenute, incoraggiate – e usate.
Le si utilizza, però, contro la gioventù per addestrarla a quella maturità dell’egoismo a cui si aspira ovunque, le si utilizza per spezzare la naturale ripulsione della gioventù mediante un’illuminazione che trasfigura in modo scientifico-magico quell’egoismo maschile-non maschile. Si sa certamente che cosa sia in grado di fare la storia dotata di una certa preponderanza, lo si sa proprio bene: di sradicare gli istinti più forti della gioventù (entusiasmo, cocciutaggine, dimenticanza di sé e amore), di smorzare la passione del suo senso del diritto, di contenere o reprimere la brama di maturare lentamente con la brama opposta di essere subito pronti, subito utili, subito fecondi, di minare con il dubbio la sincerità e l’audacia del sentimento; la storia è pure in grado di impadronirsi con la frode del più bel privilegio della gioventù, della sua forza di impiantare da sé un pensiero grande e di farlo crescere da sé per farlo diventare ancora più grande. Una certa predominanza della storia è in grado di fare tutto questo, lo abbiamo visto, e proprio non permettendo più all’uomo (con lo spostamento delle prospettive dell’orizzonte e con l’eliminazione dell’atmosfera che lo avvolge) di sentire e di agire in modo non-storico. Allora egli si ritira dall’infinità dell’orizzonte su se stesso, indietro verso l’ambito più piccolo ed egoistico, e lì deve inaridire e seccare, probabilmente si muove verso l’accortezza, mai verso la saggezza. Con lui si può ragionare, calcola e si accorda con i fatti, non va in ebollizione, ammicca e sa cercare il vantaggio proprio e quello del suo partito nel vantaggio e svantaggio di altri; disimpara la vergogna superflua e diventa passo dopo passo l’“uomo” e il “vegliardo” di Hartmann. Così, d’altronde, deve diventare, proprio questo è il senso del “piena abnegazione della personalità al processo universale” ora così cinicamente richiesto – per il suo scopo, la redenzione universale, come ci assicura E. von Hartmann, il burlone. Ora, volere e scopo di quegli “uomini e vegliardi” secondo Hartmann è ben difficilmente proprio la redenzione universale, ma sicuramente il mondo sarebbe più redento se fosse redento da questi uomini e vegliardi, dato che allora giungerebbe il regno della gioventù.

X

In questo punto, pensando alla gioventù, grido terra! Terra! Ne ho abbastanza e anche di più di un viaggio che appassionatamente cerca e vaga su oscuri mari stranieri! Ora finalmente si profila una costa: comunque sia, bisogna arrivarci ed il peggior porto di emergenza è meglio che tornare di nuovo a vacillare nella disperata, scettica, infinità. Ora teniamoci saldi alla terra, poi troveremo i buoni porti e faciliteremo l’arrivo a coloro che verranno dopo.
Questo viaggio è stato pericoloso ed eccitante. Come siamo lontani dalla tranquilla osservazione, con la quale vedemmo la nostra nave allontanarsi sul mare la prima volta. Indagando i pericoli della storia, ci siamo trovati esposti al massimo grado a tutti questi pericoli, noi stessi mostriamo le tracce di quei mali che sono pervenuti sino agli uomini dell’epoca moderna in seguito ad un eccesso di storia, e proprio questo trattato mostra (non mi voglio nascondere) nella mancanza di misura della sua critica, nell’immaturità della sua umanità, nel passaggio frequente dall’ironia al cinismo, dall’orgoglio allo scetticismo, il suo carattere moderno, il carattere della personalità debole.
E tuttavia ho fiducia nella forza ispiratrice che mi guida il carro al posto di una divinità tutelare, ho fiducia nella gioventù, dato che mi ha guidato rettamente, se ora mi spinge ad una protesta contro l’educazione storica della gioventù da parte dell’uomo moderno e se chi protesta pretende che l’uomo impari prima di tutto a vivere e che si serva della storia solo a servizio della vita imparata.
Bisogna essere giovani per comprendere questa protesta, di più, nel precoce incanutimento della nostra gioventù attuale, non si può essere abbastanza giovani per percepire ancora contro che cosa in realtà si protesta. Mi farò aiutare da un esempio. In Germania non è passato molto più di un secolo da quando si risvegliò in alcuni giovani uomini un naturale istinto per ciò che si chiama poesia. Si pensa, per caso, che le generazioni non avessero parlato affatto di quell’arte a loro internamente estranea già prima e anche in quel periodo? Si sa il contrario: che loro hanno riflettuto, scritto, discusso di poesia a più non posso, con parole su parole, parole, parole. Quel sopraggiungente
risveglio di una parola alla vita non causò immediatamente anche la morte di quei creatori di parole, in un certo senso essi vivono ancora oggi, dato che se, come dice Gibbon, non occorre altro che tempo, ma molto tempo, perché un mondo tramonti, occorre ancora più tempo perché in Germania, il “Paese della gradualità”, un concetto sbagliato si estingua. Comunque, c’è oggi forse un centinaio di uomini in più che sa che cosa sia la poesia; forse cento anni più tardi ci sarà un altro centinaio di uomini in più che nel frattempo avrà imparato che cosa sia la cultura e che la Germania fino ad ora non ha cultura, sebbene ne parlino e ne vadano orgogliosi. A loro il piacere generale dei Tedeschi per la loro “cultura” risulterà tanto incredibile e ridicolo quanto a noi la classicità riconosciuta una volta a Gottsched66 o il valore di Ramler come Pindaro tedesco. Forse giudicheranno il fatto che questa cultura sia stata solo una forma di sapere intorno alla cultura e per questo motivo un sapere davvero sbagliato e superficiale. Sbagliato e superficiale, cioè, perché si sopportava la contraddizione di vita e sapere, perché non si vedeva affatto la caratteristica
nella cultura di veri popoli civili: il fatto che la cultura può nascere e fiorire solo dalla vita, mentre fra i Tedeschi viene fissata come un fiore di carta o versata sopra come glassa zuccherata, e perciò deve rimanere sempre bugiarda e infruttuosa. L’educazione tedesca dei giovani proviene proprio da questo concetto di cultura sbagliato ed infruttuoso, il suo scopo, pensato in modo purissimo ed elevatissimo, non è affatto l’uomo colto e libero, ma piuttosto l’erudito, l’uomo di scienza, in particolare l’uomo di scienza il prima possibile utile, che si pone al di là della vita, per riconoscerla davvero chiaramente; il suo risultato, osservato in modo del tutto empirico-comune, è il filisteo
storico-estetico della cultura, il pettegolo saputello e sempre al corrente delle novità sullo Stato, la Chiesa e l’arte, il sensore di migliaia di sensazioni, lo stomaco insaziabile che non sa ancora che cosa siano una vera fame e una vera sete. Che un’educazione con quello scopo e con questo risultato sia contro natura, questo lo prova solo l’uomo non ancora completo, lo sente solo l’istinto della gioventù, perché ha ancora l’istinto della natura, che viene spezzato solo artificiosamente e violentemente da quell’educazione. Ma chi voglia ancora una volta spezzare questa educazione,
questi deve aiutare la gioventù ad ottenere la parola, deve illuminare l’opposizione inconscia della gioventù con la chiarezza dei concetti e farne una coscienza consapevole e che parli ad alta voce. Come raggiungerà una meta così strana?
Prima di tutto distruggendo una superstizione, la fede nella necessità di quella operazione educativa, se si ritiene che non ci sarebbero altre possibilità se non proprio la nostra attuale realtà altamente miserabile. Che uno solo esamini la letteratura del modello di scuola superiore e di educazione dell’ultimo decennio: l’esaminatore si accorgerà con malaugurato stupore come venga pensato in modo uniforme (nonostante tutte le oscillazioni delle proposte, tutta la veemenza delle contraddizioni) l’impianto generale dell’educazione, come venga compreso in modo sconsiderato il risultato finora ottenuto, l’“uomo colto”, come questo venga accolto oggi, come fondamento necessario e ragionevole di quell’educazione ulteriore. Ma allora quel canone monotono suonerebbe circa: il giovane uomo deve cominciare con un sapere sulla cultura, non con un sapere sulla vita e ancora meno con la vita e l’esperienza stessa. E questo sapere sulla cultura viene istillato o cacciato dentro nell’adolescente come un sapere storico; ciò significa che la sua testa viene riempita con un numero mostruoso di concetti tratti dalla conoscenza, mediata al massimo grado, di tempi e popoli passati, non dall’esperienza immediata della vita. La sua brama di sperimentare lui stesso qualcosa e sentire crescere in sé un sistema vivo e coerente di esperienze proprie – una tale brama viene messa a tacere e insieme ubriacata dal sontuoso miraggio, come se fosse possibile in pochi anni assommare in sé le più alte e ammirevoli esperienze dei tempi antichi, e proprio dei tempi più grandi. È proprio lo stesso metodo insensato che conduce i nostri giovani artisti delle arti figurative nei musei e nelle gallerie, invece che nel laboratorio di un maestro e soprattutto nell’unico laboratorio dell’unica maestra, la natura. Sicuro, come se si potesse, in quanto fuggevoli passeggiatori della storia, imparare, guardando al passato, le sue capacità e le sue arti, il suo vero guadagno di vita. Sicuro, come se la vita stessa non fosse un mestiere che deve essere imparato dal principio e costantemente e che deve essere esercitato senza risparmiarsi, se non si vuol far sgusciare fuori pasticcioni e chiacchieroni!
Platone riteneva necessario che la prima generazione della sua nuova società (nello Stato perfetto) venisse cresciuta con l’aiuto di una forte menzogna necessaria: i bambini dovevano imparare a credere di aver abitato tutti quanti per un lungo tempo, sognando, sotto terra, dove loro venivano modellati e formati dall’artefice della natura. Impossibile rivoltarsi contro questo passato! Impossibile opporsi all’opera degli dei! Dovrebbe valere come inviolabile legge di natura: chi è nato come filosofo, ha oro nel suo corpo, chi come guardia, solo argento, chi come lavoratore, ferro e
bronzo. Come non è possibile mescolare questi metalli, spiega Platone, così non dovrebbe essere possibile mutare e confondere l’ordine delle caste; la fede nell’aeterna veritas delle caste è il fondamento della nuova educazione e quindi del nuovo Stato. Così ora anche il moderno Tedesco crede nell’aeterna veritas della sua educazione, del suo modo di cultura, e tuttavia questa fede cade, come sarebbe caduto lo Stato platonico, se per una volta alla menzogna necessaria fosse contrapposta una verità necessaria: che il Tedesco non ha cultura, perché non ne può avere affatto
sulla base della sua educazione. Vuole il fiore senza radici e gambo, lo vuole quindi inutilmente.
Questa è la semplice verità, spiacevole e grossolana, davvero una verità necessaria.
In questa verità necessaria, però, deve essere cresciuta la nostra prima generazione: essa certamente ne soffre nella maniera più pesante, dato che deve crescersi da sé, in particolare se stessa contro se stessa, verso una nuova abitudine e natura, a partire dalla prima abitudine e natura, cosicché potrebbe parlare con sé dicendo in antico spagnolo “Defienda me Dios de my” (Dio mi protegga da me), cioè dalla natura già inculcata in me. Deve gustare quella verità goccia a goccia, provarla come una medicina amara e violenta, e ogni individuo di questa generazione deve superarla, pronunciare si di sé il giudizio che egli sopporterebbe con maggiore leggerezza come giudizio generale su un’intera epoca: noi siamo senza cultura, ancora di più, noi siamo corrotti rispetto alla vita, al corretto e semplice vedere e sentire, al cogliere con gioia ciò che è prossimo e naturale, perché noi stessi non siamo convinti di avere in noi una vita vera. Sminuzzato e caduto in pezzi, separato a metà in modo totalmente meccanico in un interno e in un esterno, cosparso di concetti come denti di drago, producendo draghi fatti di concetti, soffrendo per questo della malattia delle parole e senza fiducia in una sensazione propria, che non sia ancora marchiata con le parole: in quanto fabbrica di concetti e di parole non viva ma incredibilmente attiva ho forse ancora il diritto di dire su di me cogito, ergo sum ma non vivo, ergo cogito. Mi è garantito il vuoto “essere”, ma non il pieno e verde “vivere”, la mia sensazione originaria mi garantisce solo che io sono un essere pensante, non che io sono un essere vivente, che io non sono un animal, ma al massimo un cogital. Regalatemi prima una vita, allora vorrò tirarne fuori anche una cultura! Così grida ogni individuo della prima generazione e tutti questi individui si riconosceranno fra gli altri da
questo grido. Chi regalerà loro questa vita?
Nessun uomo e nessun Dio, solo la loro propria gioventù: toglietele le catene e avrete liberato con lei la vita, dato che era solo nascosta, in prigione, non è ancora seccata e spenta – chiedete voi stessi!
Ma è malata, questa vita incatenata, e deve essere salvata. È malata cronica e soffre non solo per il ricordo delle sua catene – soffre (cosa che a noi riguarda particolarmente) della malattia della storia. L’eccesso di storia ha attaccato la forza plastica della vita, essa non riesce più a servirsi del passato come alimento sostanzioso. Il male è terribile! Se la gioventù non possedesse il dono chiaroveggente della natura, allora nessuno saprebbe che è un male e che un paradiso della salute è andato perduto. Ma la stessa gioventù indovina anche con l’istinto terapeutico della stessa
natura come si può riottenere questo paradiso, conosce gli impiastri e le medicine contro la malattia della storia, contro l’eccesso di storico: come si chiamano?
Ora non ci si meravigli che siano nomi di veleni: i rimedi contro lo storico si chiamano il non- storico e il sovrastorico. Con questi nomi ritorniamo agli inizi della nostra considerazione e alla sua pace.
Con la parola “non-storico” descrivo l’arte e la forza di poter dimenticare e di chiudersi in un orizzonte limitato; “sovrastorico” chiamo le potenze che distolgono lo sguardo dal divenire per spostarlo su ciò che dà all’essere il carattere dell’eterno e dell’equivalente, verso l’arte e la religione. La scienza (dato che è lei che parlerebbe di veleni) vede in quella forza, in queste potenze, potenze e forze avversarie, dato che ritiene vera e giusta solo la considerazione delle cose, cioè come considerazione scientifica che vede ovunque un divenuto, uno storico e da nessuna parte un essente, un eterno; come lei vive in una contraddizione interna contro le potenze eternizzanti dell’arte e della religione, così odia la dimenticanza, la morte del sapere, così cerca di togliere ogni delimitazione di
orizzonte e getta l’uomo in un mare infinito-illimitato di onde luminose del divenire noto.
Se solo potesse viverci dentro! Come le città crollano e si spopolano a causa di un terremoto e l’uomo solo tremando e provvisoriamente costruisce una casa su terreno vulcanico, così la vita crolla su di sé e diventa deboluccia e scoraggiata, se il terremoto concettuale provocato dalla scienza toglie all’uomo il fondamento di ogni sua sicurezza e pace, la fede in ciò che è perseverante ed eterno. Ora, deve dominare la vita sul conoscere, sulla scienza o il conoscere sulla vita?
Quale delle due forze è la più alta e decisiva? Nessuno dubiterà: la vita è la forza più alta, dominante, dato che un conoscere che annienti la vita avrebbe distrutto insieme anche se stesso. Il conoscere presuppone la vita, ha, quindi, al mantenimento della vita lo stesso interesse che ogni essere ha al proseguimento della sua esistenza. Così la scienza esige un controllo e una sorveglianza superiore; una dottrina dell’igiene della vita si pone proprio accanto alla scienza e un’affermazione della dottrina dell’igiene affermerebbe: il non-storico e il sovrastorico sono i rimedi naturali contro la malattia della storia. È probabile che noi, i malati della storia, dovremo soffrire anche per i rimedi. Ma il fatto che noi soffriamo a causa loro non è una prova contro la correttezza del metodo di guarigione scelto.
E qui riconosco la missione di quella gioventù, di quella prima generazione di combattenti e di uccisori di serpenti, che precede una cultura e un’umanità più felici e più belle, senza avere di questa felicità futura e della bellezza a venire niente più di un’idea promettente. Questa gioventù soffrirà contemporaneamente del male e del rimedio e, nonostante ciò, crederà di poter esibire una salute più forte e una natura più naturale delle generazioni precedenti, i colti “uomini” e “vegliardi” del presente. Ma la sua missione è di scuotere i concetti di “salute” e di “cultura” propri del presente e provocare derisione e odio contro quegli ibridi mostri di concetto; e il segno della garanzia della propria salute più forte dovrebbe essere proprio il fatto che lei stessa, cioè quella gioventù, non può utilizzare nessun concetto, nessuna parola di partito tratta dalle monete parole/concetto in circolazione attualmente per descrivere la sua essenza, ma viene convinta solo da una forza in lei attiva, che combatte, seleziona e smembra e da un sentimento vitale sempre elevato in ogni ora buona. Si può affermare, per contro, che questa gioventù abbia già una cultura, ma per quale gioventù questo sarebbe un rimprovero? Le si può rimproverare rozzezza e assenza di misura, ma lei non è ancora abbastanza vecchia e saggia per limitarsi; prima di tutto non ha bisogno di fingere di difendere nessuna cultura già pronta e si gode tutte le consolazioni e i privilegi della gioventù, in particolare il privilegio della sincerità coraggiosa e spensierata e l’eccitante conforto della speranza.
Di questi speranzosi so che capiscono queste generalizzazioni da vicino e se le tradurranno in dottrina intesa personalmente mediante la loro esperienza più intima; gli altri possono anche non accorgersi di nient’altro che di scodelle coperte, che potrebbero essere anche vuote, fino a quando un giorno, sorpresi, vedranno con i loro occhi che le scodelle sono riempite e che in queste generalizzazioni si trovavano inscatolati e compressi attacchi, pretese, spinte vitali, passioni, che non potevano rimanere così coperti per lungo tempo. Rinviando questi dubbiosi al tempo che tutto porterà alla luce, mi dedico infine a quella società degli speranzosi per raccontare loro con una parabola il percorso e il corso della loro guarigione, della loro salvezza dalla malattia della storia, con ciò la loro stessa storia, fino a quando saranno abbastanza sani per praticare di nuovo la storia e per servirsi del passato sotto la signoria della vita in quel triplice senso, cioè monumentale, antiquario o critico. In quel momento possederanno minor sapere dei “colti” del presente, dato che avranno disimparato molto e avranno perso ogni voglia di gettare ancora uno sguardo su ciò che i colti soprattutto vogliono sapere; i loro segni distintivi sono, osservati dal punto di vista dei colti, proprio la loro “incultura”, la loro indifferenza e risolutezza verso tutte quelle cose note, pure verso quelle buone. Ma in quel punto finale della loro guarigione saranno diventati di nuovo uomini e avranno smesso di essere aggregati simili agli uomini – questo è qualcosa! Queste sono ancora speranze! Non vi ride per questo il cuore, voi speranzosi?
E come giungiamo a quella meta, vi chiederete. Il dio delfico vi richiama, proprio all’inizio del vostro cammino, a quella meta, al suo motto “Conosci te stesso”. È un motto difficile, dato che quel dio “non nasconde e non annuncia, ma indica solamente”, come ha detto Eraclito. Che cosa vi indica?
Ci sono stati secoli nei quali i Greci si trovarono in una situazione di pericolo simile a quella nella quale ci troviamo noi, cioè di venire sommersi da cose straniere e passate a causa della storia.
Essi non hanno mai vissuto in un’intangibilità orgogliosa, la loro cultura era piuttosto un caos di forme e concetti stranieri, semiti, babilonesi, lidii, egizi, e la loro religione una vera battaglia di dei di tutto l’Oriente, quasi come oggi la “cultura tedesca” e la religione sono un caos (in lotta dentro di sé) di tutti gli altri Paesi, dell’intero passato. E nonostante ciò la cultura ellenica non divenne un aggregato, grazie al motto apollineo. I Greci impararono gradualmente ad organizzare il caos, cioè, secondo la dottrina delfica, ritornando a se stessi, cioè alle loro esigenze reali, e lasciando morire le esigenze apparenti. Così ripresero possesso di sé, non rimasero a lungo gli eredi sovraccarichi e gli epigoni dell’intero Oriente; loro stessi nel modo più felice divennero (dopo una dolorosa battaglia con se stessi e mediante l’interpretazione pratica di quel motto) coloro che arricchirono e ampliarono il tesoro ereditato, le primizie e gli esempi di ogni popolo di cultura a venire.
Questa è una parabola per ogni singolo di noi: egli deve organizzare il caos in sé, ritornando alle sue esigenze reali. La sua sincerità, il suo carattere buono e verace, dovranno opporsi in qualche momento al fatto che sempre e solo si ripeta, si impari da altri e si imiti; allora comincerà a comprendere che la cultura può essere qualcosa d’altro che decorazione della vita, cioè alla fine sempre e solo contraffazione e velo, dato che ogni decorazione nasconde la cosa decorata. E così gli si rivelerà il concetto greco di cultura – in opposizione a quello romano – il concetto di cultura come di una physis nuova e migliorata, senza interno ed esterno, di cultura come voce unanime fra vita, pensiero, apparire e volere. Allora lui impara dalla sua esperienza che era lui la forza superiore della natura sensibile, attraverso la quale ai Greci è riuscita la vittoria su tutte la altre culture, e che ogni aumento della veridicità deve essere anche un incremento che prepari la vera cultura, anche se questa veridicità potrebbe occasionalmente danneggiare in modo serio il culturame così apprezzato, anche se lei stessa potrebbe contribuire a far cadere una cultura del tutto decorativa.

TRADUZIONE A CURA DI MONICA RIMOLDI

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